Io son certo che gli antichi orientali, o i primi inventori dell'alfabeto, non s'immaginarono che i suoni vocali fossero così pochi, e tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero considerarli come infiniti, vedendo ch'essi animavano, per così dire, tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le vene degli animali. O pure (e questo credo piuttosto) non li considerarono neppure come suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e interminabile e indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi quello spirito animator del tutto che totam agitat molem, et toto se corpore miscet. A questa permanenza delle vocali nel ritmo corrisponderà il piacere delle vocali proprio della lingua dei trecentisti: segni d'una resistenza della lingua all'opera d'incivilimento, ovvero d'imbarbarimento. Al margine di questi passaggi leopardiani: l'assenza delle vocali nella scrittura è la soglia su cui l'infinito lambisce la lingua, il canto vivifica il senso, o lo sospinge verso lo specchio della sua vanità, delle sue ferite, la voce penetra nel corpo della grammatica come richiamo d'una parola originaria, della sua irriducibilità al segno. D'altra parte, a partire dai greci, le modulazioni vocaliche dispongono la lingua al ritmo, la sottraggono alla continuità del discorso, sono il varco perché il musicale penetri e permanga nella lingua. La riduzione del segno grafico delle vocali a un punto, come avviene nella lingua ebraica, la loro indeterminatezza fonetica nella scrittura, apre il Libro alle modulazioni del canto nella sinagoga, sposta la lettura della Torah verso un'esegesi musicale per la quale l'interpretazione del testo è varco per le variazioni dei sentimenti. La lingua ebraica, dunque, come scrittura punteggiata dall'assenza: metafora vivente di quell'evento che 228
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