Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

Totius latinitatis Lexicon, per il quale le litterae vocales, o yQétµµa'ta cp6veu'ta, «sunt illa quae per se vocem faciunt, id est quae per se sine consonantibus pronunciari possunt». Del resto è in opposizione ad esse, o in rapporto ad esse, che le consonanti furono dai Greci definite acpova o çvµcpova (si veda il Thesaurus Greciae Linguae, dello Stephanus). Un'autonomia di pronuncia, una pienezza di voce, una limpidezza di dizione, che sembrano risarcire, nelle epoche di disciplinamento grammaticale, quel luogo dell'invisibilità grafica, quell'assenza, quell'indeterminatezza e infinita variabilità che furono proprie delle vocali nei primi alfabeti. Sia nella scrittura geroglifica che in quella fenicia, e nei primi alfabeti da essa derivati, le vocali non sono rappresentate (aleph, che è anche la prima lettera dell'alfabeto ebraico, è solo un'emissione di fiato, una sorta di spirito dolce). I Greci fermano nel segno grafico le vocali adoperando quei segni dell'alfabeto fenicio che foneticamente rispondono a suoni gutturali a loro ignoti o ad aspirazioni. Mentre la puntuazione, propria dell'alfabeto siriaco, caratterizzerà poi altri alfabeti, come l'ebraico, l'aramaico, l'arabo. Nell'alfabeto etiopico le vocali sono espresse mediante piccole alterazioni della forma di ciascuna consonante: una geometria mobile del segno consonantico cerca di fermare il suono, altrimenti fluttuante e indistinto, della vocale. Questa resistenza del grido alla rappresentazione, del canto al segno, dell'esultanza e dello spavento alla recinzione grafica, dice l'appartenenza delle vocali più all'ordine del respiro che della dizione, più a quel patto profondo della lingua con l'origine che alla complicità tra lingua e civiltà. La lettera uccide, lo spirito vivifica: perché non vedere in questa affermazione un elogio delle vocali? 225

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