manzo di David Garnett; e l'esperienza straordinaria del personaggio di Kubin per aver luogo deve trasferirsi nell'Altra parte. Inseguendo questo mostro di felicità si rischia anche di finire fuori dal quadro proprio al genere frammento. Fuori dal suo senso letterale e dalla sua forma tipografica arriviamo a pensarlo quasi in una forma seconda che, sempre con Baudelaire, potremmo chiamare allegorica. Come altrove abbiamo chiamata allegorica, in una certa linea di testi, la fotografia piatta della Camera chiara di Barthes. In ogni caso allegorica sarebbe la forma del frammento come articolazione smembrata dell'«io» e dei suoi oggetti di pensiero. Come al tocco di una bacchetta questa allegoria metterebbe in moto il movimento, investirebbe con la sua strana felicità - ma ci sarà allegoria felice? - una rivelazione da nulla: nulla d'oggetto a nulla di soggetto. Pensiamo a certe righe di Blanchot su un certo «movimento leggero», che può anche rallegrare, con il quale oltre ai valori sono spazzate via l'unità e l'identità dell'essere. «Allora forse si lascia intuire, non come paradosso ma come decisione, l'esigenza della parola frammentaria». Da questo punto di vista si può continuare, ed esplorare la decisione della parola frammentaria anche in testi più recenti «allegoricamente» presi. Per esempio i bambini del Giardino di cemento, di McEwan; la felicità meticcia del Grande mare dei sargassi, della Rhys; l'Ignobile individuo dall'erezione inaudita e criminale di Purdy; l'incosciente omicida Ripley della Highsmith, e poi i teatranti, e non solo, di Beckett e le bambole di Pizzuto. Questa è una felicità che investe il particolare e arriva in fretta alla materia e all'inorganico. C'è anche la felicità della nudità in Madame Edwarda; poi ci sono i libri felici: questa è una categoria ristrettissima aperta da Borges, in Altre Inquisizioni, con la Terra Rossa e subito chiusa con Huckleberry Finn. A proposito 221
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==