Mirare deliberatamente alla bellezza senza questa lotta apparentemente insensata, sfocerebbe soltanto in margheritine (...) Sono però d'accordo che si deve (noi dobbiamo, la nostra generazione) in fondo rinunciare a raggiungere la bellezza più grande: la bellezza che viene dalla completezza... Dunque rinunciare alla bellezza più grande: la bellezza che viene dalla completezza. Dunque entrare nel mondo del frammento come l'orizzonte di una generazione; dunque la svolta come tempo del frammento. Ma questo tempo un paio di generazioni dopo non l'abbiamo ancora visto finire, e non abbiamo ancora visto bene a cosa, o a quante cose, ha portato. Che disastro: rompersi il collo per aprire la via, un possibile frayage verso un nuovo di cui sappiamo già che non sarà nulla, se non frammenti, paragrafi, forse qualche pagina. I funamboli di Melchiori sono arrivati fino a noi: ma l'equilibrismo, che all'inizio secolo appare così acuto e drammatico, si è fatto intanto per noi più praticabile. E la scrittura del frammento non ci appare più un nulla; e Barthes torna a noi, in quello stesso libro, con un gioco, il cerchio dei frammenti; «perché l'incoerenza è preferibile all'ordine» (Gide), o perché ogni volta si ricomincia, o perché c'è un godimento immediato, che è diverso da uno sviluppo, dalla ricostituzione di un insieme, è piuttosto un tono, come un'idea musicale, una notazione che viene al bar, che viene come una voce, o un verso. Ma la stessa Virginia Woolf pur con quel suo senso d'inconsistenza, e sempre con quella voglia di agganciare una conversazione in salotto ai canali più sotterranei della vita dei suoi personaggi - di bucare la pagina ogni volta, lei stessa dice qualcosa del genere - con la sua opera prodigiosa è andata così lontano da quel disastroso nulla da mettere le generazioni posteriori a misurare a loro volta il loro disastro. Ma almeno questo appare 217
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