qualche conseguenza per quanto riguarda lo specimine testuale preso a partito, e l'intenzione della mia nota. Metto il dito sulla «oddity of a double consciousness» di cui James gratifica il «povero Strether». La «doppia consapevolezza», sia di Strether o di James, comanda le scelte di scrittura che ho passato velocemente in rassegna; essa può essere nient'altro - come si dice nella prefazione agli Ambassadors - che «la qualità... il dramma della discriminazione». Ma questo non è ancora il salto, sia pure piccolo, che vorrei far fare. La duplicità continua, intrinseca dell'enunciato jamesiano, che va ad annidarsi nei segmenti minimi della frase (una negazione, un aggettivo o un avverbio limitativo, l'avvicinamento di due termini) oppure nel ricorso a vaste perifrasi, al termine delle quali le posizioni iniziali risultano messe in dubbio; sembra prefigurare con i suoi effetti grammaticali-sintattici non appena, non tanto, la storia dei personaggi che supporta, ma il destino della serittura. Il momento vertiginoso della discriminazione potrebbe allora tradursi così: un romanzo, per definizione, si conclude; ma se potesse non finire? Allo stesso modo del senso di quanto viene narrato, continuamente scisso in due, o per esprimersi meglio: divertito da se stesso, ogni libro, ogni opera non si separa nel suo scritto (concluso) e nel suo scrivibile che non termina? 7. Inseguita in certe pieghe, la scrittura poetica rischia di dare la risposta del Sileno incalzato da re Mida: perché mi costringi a dirti ciò che per te è più vantaggioso non sapere? Si sa che un'idea riduttiva e tranquillizzante ne predica la natura consolatoria, non solo per ciò che dice ma per come funziona - per la sua compattezza, certezza, riconoscibilità di confini... Messa alle strette anche sul problema della termina203
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