Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

6. Anche Henry James sa di non potere finire mai. I suoi romanzi, ma anche le sue prefazioni ai romanzi, infittiscono e si danno il cambio allo scopo, nemmeno troppo dissimulato, di otturare l'apertura che si apre discretamente in coda a ogni testo, dopo la parola «fine». Non mi riferisco semplicemente, e sarebbe già significativo, al ritorno di certi temi attraverso l'intero corpus jamesiano: per esempio quello che investe la condizione dello scrittore o meglio il senso dello scrivere - da gli Aspern Papers a The death of the Lion, a The figure in the carpet; o quello della ricomparsa fantasmatica del passato, solo per citare The sense of the past; o ancora il motivo dell'eredità nel senso più ampio, da The spoils of Poynton a The abasemente of the Northmores. Queste, e altre ricorrenze analoghe, sembrano insinuare, è vero, che quei temi non siano in sé passibili di esaurimento ed esigano variazioni e prospettive aggiuntive. Ma di là dall'insaziabilità tematica, il _lettore sente agire una più complessa coazione scritturale. Si tratta allora di individuare nel testo il segno della buona o mala interminabilità dei romanzi jamesiani - sebbene, avendo riguardo a James, sarei incline a chiamarla mala. Sulla spinta di una pagina di Tzvetan Todorov che allude all'analisi di Ian Watt, secondo cui l'inizio degli Ambassadors mostrerebbe, fra le sue idiosincrasie stilistiche, un largo impiego di negazioni e quasi-negazioni, sono andato a rileggermi il paio di pagine in questione11 • Il racconto si apre con l'arrivo dall'America in Inghilterra, a Chester, del protagonista Lambert Strether, e con il malcelato sollievo che egli prova scoprendo che l'amico Waymarsh, con cui doveva incontrarsi, non è ancora giunto; e che gli sarà così possibile preservare quel primo impatto con l'Europa dalla connessione con qualcosa di fin troppo familiare. La condizione psichica di Strether, marcata da un desiderio di «libertà personale», 201

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