Il piccolo Hans - anno X - n. 40 - ottobre-dicembre 1983

caso - di cui Artaud sa che deve raccontarne i modi diversi di accedervi. Nella misura, come è noto, in cui questa deviazione - questa pratica della traduzione - con­ siste in ultima analisi in un ritorno alla sua propria lingua, cioè a una invenzione della sua lingua. La traduzione si rivela inseparabile dall'«autobiografia»: è di questo, si sa, che testimoniano i primi testi di Rodez, con una forza insolita, con effetti incalcolabili. E a più forte ragione perché, da pratica dapprima imposta (dai medici), essa diviene in seguito l'oggetto di una scelta deliberata, ciò che implica dei cambiamenti di prospettiva di primaria importanza. Nel settembre 1943 Artaud scrive al dottor Ferdière: «Credo che sarebbe eccellente per me mettermi a un la­ voro preciso e oggettivo. Vorrebbe farmi pervenire il libro di Lewis Carroll: The looking-glass. Farò questa traduzio­ ne per Delanglade e la farò nello spirito col quale vi ho tradotto il poemetto di "Phantasmagorie", tema con varia­ zioni, tenendomi molto vicino al testo, ma sforzandomi di trovare in francese la via originale del suo spirito». (Nouveaux écrits de Rodez, pp. 63-64) 2 Che la traduzione abbia un destinatario - per la pre­ cisione un medico del manicomio nel quale Artaud è rin­ chiuso - non è senza importanza. È come se dalla parte di colui che è nella posizione del traduttore di colpo si esigesse la più grande leggibilità. Come se, ugualmente, la sua libertà di movimento all'interno della lingua si trovasse in qualche modo già sotto sorveglianza. In rap­ porto a una tale esigenza, a tutte le costrizioni che essa rappresenta in quel contesto, Artaud adotta un'attitudine - una «strategia»? - molto singolare. È, possiamo dire, alla ricerca di parole particolarmente sovradeterminate, di parole che abbiano la capacità di mettere in opera un immenso spostamento, forse persino il più grande, di parole in grado di scompigliare progressivamente la 96

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