Il piccolo Hans - anno X - n. 40 - ottobre-dicembre 1983

di un movimento impotente, si siede, di fronte agli oggetti che, dopo le alterne vicende di apparizione, allontanamen­ to e scomparsa, sono tornati ad oscillare provocatoriamen­ te davanti a lui, l'uomo resta immobile, si guarda le mani. Questa scena finale è stata letta da uno studioso del- 1'opera beckettiana in riferimento a ciò che fonda il mon­ do umano: «il perseguimento di scopi che sempre si al­ lontanano quando noi crediamo di coglierli... non può cessare che attraverso il riconoscimento del nulla che è la sola realtà» 4 • Se l'uomo ha la possibilità di pensarsi diverso da quel­ lo che è, diverso dalla immediatezza del proprio corpo, è perché una articolazione viene a connettere immaginario e simbolico. E ciò mi sembra possa ritenersi funzione della negazione nella costituzione dell'ordine simbolico in quanto, è «la beanza di un vuoto a costituire il primo passo di tutto il suo movimento dialettico» 5 • ...alla cristallizzazione della scena: storia di Marco. La­ sciamo il nostro personaggio solo e muto sulla scena men­ tre si guarda le mani, le luci si accendono, lo spettacolo è finito. Colpiti ancora da ciò che la messa in scena tea­ trale ci ha rivelato, spostiamoci ad un'altra scena, a quello che avevo chiamato il luogo sociale di interrogazione sulla follia: il luogo della psichiatria «territoriale», per seguire la storia di Marco che propone all'ascolto una sua scena individuale. Marco è un ragazzo di piccola statura, una originale mimica del volto richiama i movimenti tesi, disarticolati, senza sfumature né transizione di una marionetta: «mi tirano i nervi», dice. Marco lavorava come meccanico, mestiere che lo ob­ bligava ad eseguire un costante movimento: avvitare e svitare bulloni. Questo lavoro non gli piaceva, preferiva suonare la fisarmonica. In realtà, avrebbe preferito suo­ nare la chitarra, ma nel suo piccolo paese di campagna 207

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