Il piccolo Hans - anno X - n. 40 - ottobre-dicembre 1983

vendo tenterò di determinare o piuttosto di «ricordare» e di descrivere. - [...] Ciò che resta dell'Infinito nel lin­ guaggio non è che un ricordo del Verbo di Dio che i grandi Mistici e alcuni rari grandi poeti hanno captato. [ ... ] I problemi attorno ai quali ruota il mio testo, le no­ zioni che cerca di evocare, sono tutto ciò che è contenuto nelle parole: Inconscio, Infinito, Eterno. È una cosa che non può farsi senza la più totale umiltà. Come un poeta che aspetta a lungo che le parole dicano tutto quello che hanno da dire prima che lui stesso si metta a domarle. Vi sono in questo testo molte frasi nelle quali mi chiedo sino a qual punto lo scrittore ha il diritto di credersi il Padrone del linguaggio». (X, 97-98) Tradurre consiste, in un primo tempo, nel copiare dei modelli, prendendo come fonte quello che altri poeti han­ no già prodotto: è quanto Artaud dichiarava nel 1931 nell'«Avvertenza» premessa alla sua traduzione del Mona­ co di Lewis. Nel 1943, all'epoca in cui traduce alcuni testi di Lewis Carroll, la prospettiva è profondamente mu­ tata. Se, da un lato, lo scopo dichiarato di una tale ope­ razione - la parola è da prendersi in tutte le sue accezioni - è di restituire in francese la «vita originale» del testo inglese, dall'altro possiamo dire che la sua conseguenza immediata è più radicale, provocare cioè lo scritto, ossia, come è qui il caso, un commento interminabile che finisce d'altronde col prendere il sopravvento sulla stessa attività di traduzione; giungendo persino, in un certo senso, ad annullarla. Tradurre consiste innanzi tutto nel mettersi delibera­ tamente nella posizione della più grande umiltà, nel ri­ conoscere cioè la propria volontà di scrittura come neces­ sariamente seconda in rapporto a testi già prodotti, in rapporto soprattutto a un senso già fissato. Per questa via è posta la questione del diritto alla scrittura, e Artaud 100

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