Il piccolo Hans - anno IX - n. 36 - ottobre-dicembre 1982

curva continuamente, il viaggiatore finisce per sfiorare una gigantesca porta di oro brunito incastrata nella mu– raglia: un braccio d'acqua, staccandosi dalla corrente prin– cipale che continua le sue volute, scorre sotto la porta, che si apre, adagio, musicalmente, davanti alla canoa. L'in– tero paradiso di Arnheim si svela alla vista. Sono le ultime dieci righe del racconto: un «soffio di melodia che incan– ta»; un dolce, strano, opprimente odore; come in sogno, un «fondersi di alberi orientali alti e snelli», «stormi di uccelli di porpora e d'oro, laghi frangiati di gigli, prati di violette, tulipani, papaveri, giacinti e tuberose, trame di ruscelli d'argento»; e sospesa a mezz'aria come per miracolo, «un'architettura fra il gotico e il saraceno con cento finestre sporgenti, minareti, pinnacoli». L'atteso dominio di Arnheim è questo e niente pm di questo: o meglio è a questo che ci lascia il racconto di Poe, realizzando ciò che si potrebbe chiamare un ec– cezionale anticlimax. Tutte le attese mobilitate sono re– presse, o se si preferisce rimandate. Però: rimandate do– ve? In un modo spiccio si può dire che il racconto finisce là dove dovrebbe cominciare. Un'indicazione emerge dal testo stesso: come la corrente seguita dalla canoa, il di– scorso narrativo è rimasto tangente al suo oggetto, l'ha toccato in un punto, per un istante, fuggendolo poi defi– nitivamente. Preparato con minuzia maniacale all'apparizione, il Dominio si mantiene invisibile. Gli ultimi indizi, ricavati del resto da un magazzino retorico piuttosto generico se– condo un favoloso orientale da opéra, cancellano anziché mostrare. L'arte intrasmissibile del dilettante Ellison non pone capo tanto al dominio, che sarebbe potuto essere, ma per effetto di transfert al racconto che realmente non c'è. Si capisce che non si tratta di lamentare, con una specie di feticismo contenutistico, che la descrizione del 63

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