Il piccolo Hans - anno IX - n. 33 - gennaio-marzo 1982

di meandri fluviali, giardini invasi da piante eccessive, case abbandonate e spazi coloniali délabrés (ricordo lo splendido e disorientante travelling sulla mappa del delta del Gange nel finale del film India Song). Se Lol rimane per sempre «rapita» per non aver saputo trovare la parola o il grido che avrebbe detto e rotto l'incantesimo mortale, Agatha invece riesce ad accomoda­ re la distanza, a dare parola alla sua visione: potrebbe trattarsi della stessa parola «Agatha». (In Lol V Stein, Duras era riuscita a definire questa parola: «parola-assen­ za», «con al centro un buco dove tutte le altre parole avrebbero dovuto essere sotterrate», o ancora «gong vuo­ to»). «Estate splendida», all'ultima pagina di Agatha, suona senza dubbio come un «gong», vuota, «mondana» e infi­ nita. Finalmente, sembra che dalla finestra «nebbiosa e cupa» del presente, sorga un'eternità solare, «più forte della nostra forza, più blu di te», incommensurabile rispet­ to alle biografie. «...Un'estate più avanti della nostra bel­ lezza, del mio corpo, più dolce di quella pelle sulla mia sotto il sole, di quella bocca che non conosco». Così finisce Agatha. In poche righe pronunciate dalla sorella, sorge la visione del passato; il campo si restringe, si ravvicina la «finestra» abbagliante (bellezza-corpo-pelle-bocca), a mo' di zoom. Precipita, la visione, nel tempo mortale, nel presente grammaticale. La bocca del fratello sembra saldare il sempre e l'immediato. Ma il presente, in cui si sfiora l'oggetto, è anche il luogo in cui lo si perde: «conoscere» è dato alla forma negativa del presente. La visione dell'estate è stata al massimo avvicinata e al mas­ simo allontanata perché stare nel mito non dà né contatto, né possesso, né conoscenza. Celebrando l'estate adolescen­ ziale e materna, inondata di sole (com'è inondato di luce solare, secondo Blanchot, «l'infinito serbatoio dell'oblio»), Agatha, o la voce narrante, riconsegna la visione al grande 51

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