Il piccolo Hans - anno VIII - n. 32 - ottobre-dicembre 1981
tavia alcuni l'hanno provato, e proporzionalmente a quanti lo conoscono, hanno tratto piacere da versi che esprimono sensazioni strane, che essi stessi non hanno mai osato comunicare, e tanto meno sono abituati a veder sviluppate in poesia.» (a . fohn Thelwall, 17 dic. 1796; Letters, voi. I, pp. 277-78). Coleridge scrive come chi, «credendo» al «già-ve duto», vuole inserirlo tra le manifestazioni della vita psichica del soggetto; nella poesia, allontana come cosa non propria la spiegazione metapsicologica, «e alcuni hanno detto / Che già abbiamo vissuto prima di indos sare questa veste di carne »; nella lettera, difende i pro pri versi «oscuri» da una eventuale chiarificazione solo di superficie: il sogno l'ha usato non a spiegazione del fenomeno, ma per strategia retorica; la similitudine in cui entra («sembianza simile a», non «apparsa in»), dovrebbe far intuire a chi legge il grado di «verità» della sensazione che in quel momento egli ha provato : l'immagine onirica, «qualcosa che è stato sognato e poi dimenticato» 5, non è affatto un tramite tra il «già-ve duto» e la vita della veglia. Al contrario, quell'esperienza di falso riconoscimento, rispetto alla normale vita della coscienza, resta un fatto isolato, tagliato fuori da una barriera impenetrabile: dal momento che egli non può collegare quella «strana» sensazione alla fantasia di morte del neonato che, almeno nel sonetto, la segue. Ed è l'impenetrabilità e la resistenza dell'ostacolo che egli, letteralmente, ha voluto conservare nella poesia: fino a farne la poesia stessa. (Hartley, la cui nascita si sta celebrando, sarà poeta e vivrà 53 anni). Come la fantasia del «già veduto», anche il sogno chiude un percorso, che cade in profondità, per la via del sonno corporeo: « Cadere addormentati: non si rap presenta perfettamente in questa espressione un evento reale del corpo? è forse in eccesso, se al primo piom bare nel sonno cadiamo giù per precipizi, o sprofon- 126
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