Il piccolo Hans - VII - n. 27 - luglio-settembre 1980

te in contrapposizione questo caso con quello della lin­ gua perché la cucina, egli dice, è definita dai suoi fini mentre la lingua non lo è (Grammatica Filesofica 132 e 133). Le regole del linguaggio sono dette arbitrarie in un senso in cui le regole che gov�rnano alcune attività pratiche non lo sono; non c'è nessuna connessione in­ trinseca tra un nome e la cosa denominata, niente che fornirà un criterio per la corretta applicazione del nome. Ciò nonostante la spiegazione di Wittgenstein dell'ori­ gine della forza normativa delle regole linguistiche è simile a quella data per la cucina - se un'azione è in accordo con la regola o no è giudicato dai risultati del­ l'azione, non da qualche processo mentale implicato, nè da come è stata fatta. I fattori determinanti nel seguire una regola sono pubblici e esterni, di qui l'apparenza di determinazione oggettiva; essi p.on sono forniti da regolarità causali ma dalle regolarità introdotte della prassi e delle istituzione umane e queste non sono interpretate da noi, che in­ vece ne siamo parte. «201. ...c'è un modo di concepire una regola che non è! un'interpretazione ma che si manifesta, per ogni singolo caso d'applicazione, in ciò che chiamiamo "seguire la regola" e " contravvenire ad essa"». L'impossibilità di un linguaggio privato consegue perciò dalle affermazioni che i nomi devono avere un senso (che determina il loro ruolo nelle frasi) come pure un referente; che il senso è determinato dalle re­ gole; che se una regola è stata seguita si giudica dai risultati, cioè da che cosa è fatto, non da che cosa acca­ de nel processo del «seguirla» o della sua interpreta­ zione; e che le regole non possono, perciò, essere segui­ te «privatamente». L'ultimo punto è strettamente connesso ad un prin­ cipio enunciato nel Tractatus, ma apparentemente con­ diviso da Wittgenstein nel corso della sua ultima filoso- 131

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