Il piccolo Hans - anno VII - n.26 - aprile-giugno 1980

Da queste osservazioni non mi farò certo indurre a conclusioni affrettate. ,Lacan ha bene osservato (Fonction et champ de la parole et du langage) che nulla ripugna allo spirito della disciplina psicoanalitica quanto la ana­ logia. E si tratta di un demone difficile da esorcizzare. Ma non riesco a resistere alla tentazione di inserire - a questo punto, sia pure en passant - una falsa eti­ mologia, o meglio una quanto meno -curiosa convergenza lessicale, che va nella direzione delle cose sopra accen­ nate. L'etimo di «rima» è «ritmo» (Dante nel De vul­ gari eloquentia scrive ancora rithimorum habitudo per intendere la disposizione delle rime, ritimus, abitual­ mente per rima). Ma rima - ed ecco il falso etimo, o la convergenza - significa in latino «fessura», e que­ sto significato è adoperato anche in talune espressioni italiane («rima labiale», «rima vulvare», per esempio), e in marineria come sinonimo di «falla», strettamente imparentato con il francese faille, çhe, nel discorso la­ caniano è quasi un termine tecnico. II Occorre, comunque, stringere. Se non giungere - come si dice - alle conclusioni, avanzare almeno una qualche ipotesi per un ulteriore lavoro di chiarifica­ zione e di approfondimento. E' quello che cercherò di fare nella terza parte di questo intervento. Prima, tuttavia, vorrei - traendo questa volta esem­ pio da un testo poetico - ritornare sull'enunziato di Freud, che non si esaurisce nella sottolineatura della funzione selettiva e distributiva della rima, ma aggiunge qualcosa d'altro. Scrive Freud - lo abbiamo già citato ma lo ripe­ tiamo per memoria: «Le poesie più belle sono certo quelle in cui non si nota l'intenzione di trovar la rima,

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