Il piccolo Hans - VI - n. 23 - luglio-settembre 1979
rità della materia verbale rispetto al significato e al con cetto; e cioè quella poesia per la quale il linguaggio si configura nella sua opacità, densità, e, per ciò stesso, nella sua impossibilità a « passare » sul significato o sull'oggetto concettuale; poesia · per la quale la parola o, meglio, il significante, rappresentano il non codificato e il non codificabile del linguaggio, ciò che dal linguag gio è espulso in quanto «residuo» non simbolizzato, ma in cui scorre e pullula quello che Lacan chiama il «reale» (in opposizione alla «realtà», che sarà invece da intendere come ciò che dell'esperienza viene elabo rato a livello simbolico, o linguistico-ideologico). In questo caso, la poesia è un atto «originario» in quanto si situa là ove il linguaggio si dà non tanto come siste ma comunicativo, veicolo di oggetti mentali o stati di coscienza quanto come « rottura di una totalità» (Der rida). Il « pensiero verbale» su cui si fonda e che ela bora questa poesia, risulta essere, insomma, il pensiero stesso della poesia (in quanto pensiero non concettuale); è il pensiero della poesia in quanto pensiero , di quel l'ImpossibHe (come direbbe Georges Bataille) in cui, ancora Lacan, con esplicito riferimento a questo autore, fa consistere quello che egli denominp., appunto, il « reale ». Ora, io non voglio qui dire che il fondamento sul pensiero verba·le costituisca garanzia per i risultati poe tici più alti; voglio dire semplicemente che, lì, sta · l'at titudine più «moderna», vale a dire più produttiva, per questo _ genere di operazioni, oggi. E non è un caso · se, almeno in Italia, una linea ben precisa della sperimen tazione poetica inscrive consapevolmente le proprie ope razioni nell'ambito di questo «pensiero verbale» (o le effettua in quanto «pratica della verbalità»), testimo niando, fra l'altro, di frequentazioni teoriche radical mente diverse rispetto a quelle degli sperimentatori pre cedenti (la neoavapguardia). Si pensi, ad esempio, alle 74
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