Il piccolo Hans - VI - n. 23 - luglio-settembre 1979

di « funzionare ». I beceri foatelli di Giuseppe capi­ scono subito che il sogno vuol dire qualcosa, proprio perché non dice, e prendono sul serio più quei simboli che il discorso esplicito del fratello. Il fatto che un'in­ terpretazione sia richiesta conta molto di più del modo in cui essa viene fornita. Così non importa che Giu­ seppe dal contenuto del sogno non ricavi poi nulla che non sappia già: conta sette vacche grasse e set1e magre, ma poi chiede un quinto del raccolto da tenere di riserva; chiede quel che può · chiedere una volta che ha deciso di affrontare il problema delle annate di carestia; quel che conta è che il faraone, avendo so­ gnato, s'è spaventato e si è reso disponibile alla inter­ pretazione. In questo senso, analisi o divinazione mi interessano allo stesso modo. L'utopia può avere una funzione analoga? La do­ manda nasce dalla naturale congiunzione, nel linguag­ gio comune, di termini come « sogno » ed « utopia ». E dall'ovvio sospetto che l'utopia sia in qualche modo un sogno collettivo; e dunque che lo stacco, lo sdoppia­ mento, la tragicità dell'dlluminismo, se ci sono, vengano dalla presenza della dimensione utopica nella cultura progressista dal Rinascimento in poi. Sogno ed utopia: solo il linguaggio di chi crede di possedere il reale e le reali possibiLità future con­ giunge tranquillamente questi due termini: « si tratta solo di sogni, di utopie, di questioni morali, ideali, sovrastrutturali». Nel linguaggio del senso comune so­ gno ed utopia sono la stessa cosa in quanto « non cosa»; il senso comune, correndo su un sentiero stret _ tissimo, usa mezzo dizionario per indicare noncose, fan­ tasmi al lato del sentiero, ragnatele da stracciare. Ma, appena fuori dal senso comune, il sogno diventa su­ bito « prima » e « più » di realtà; l'utopia invece rimane « non realtà ». (« Sogno » poi si usa anche per indicare percezione 145

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