Il piccolo Hans - anno VI - n. 22 - aprile-giugno 1979

quanto rpossibile, prendere runa via di mezzo, e tentare di non perdere di vista né i vincoli che impone l'esi,s1tenza di proposizioni autofìalsificatrici, né la conce­ zione aristotelica della �erità - ,evitando nel contempo i paradossi che nascono proprio da questo affronto. Il fatto di prendere in considerazione le proposizioni insoilubili e autofa1sificatrioi suggerisoe una concezione della verità che differisce da quella di Aristotele: alla formula che compendia quest'ultima: VX = p, tende a sostituirsi un'altra: VX = p A VX. Quest'altra formula è preferibile ,alla prima, perché tiene conto delle propo­ sizioni autofalsificatrioi 32 ; ma intuitivamente ,essa è molto meno , soddisfacente, e si lascia difficilmente inter­ pretare. Perciò si ha tutto l'interesse a tentare di conct­ liwe queste due formule, riducendo le foro differenze in modo da renderle equivalenti. 2.311 Questa equivalenza 1 si può rn,ggiungere a condi­ zione di stabilire che uno dei :termini che compaiono contempor a neamente nel1e due formule non è « lo stes­ so» in entrambe che per effetto d'un'ambiguità; elimi­ nando questa ambiguità, si ottengono due formule del · tutto conciliabili. Così , si può considerare - ed è quanto abbiamo fatto nel1e sezioni precedenti - che l'espre­ sione « VX », che compare a sinistra del segno d'equi­ valenza nelle due formule, è ambigua: in un caso, que­ sta espressione significherebbe la verità simpliciter della proposizione X - nell'altro caso essa significherebbe una verità r�lativa (secundum quid), ossia ciò che abbiamo chiamato 1a «quasi-verità». Una volta tolta l'ambiguità per mezzo d'una notazione appropriata; le due formule: V1X = p e VX = p A VX, cessano di contrapporsi - ma al prezzo d'una trasformazione della prima, diffi­ cilmente accettabile: questa 1:'msformazione equivale infatti a lllil abbandono della definizione aristotelica in quanto definizione della verità simpliciter; ora è pro- 123

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