Pègaso - anno V - n. 5 - maggio 1933

A . G A T T O , Isola 635 a parte questa considerazione iniziale che ci fa augurare che uno sguardo p i ù serio sia portato nella valutazione della lirica post-dannunziana, giu– dicata tuttora in base a formule di scuola, non è da temersi che il Gatto s i possa prestare alle variazioni di una confusa critica « totalitaria ». Anche a critici che amano spesso confondere la semplicità col semplicismo e la cronaca del giorno con l'umanità dell'arte, Isola apparirebbe senza equivoci qual è i n realtà : espressione di un temperamento autentico ma ancora saturo di altrui esperienze, di altrui voci; documento di un'in– telligenza sottile ma ancora freddissima; e dico ancora perché qualcosa un po' dovunque urge e affiora dalle sue pagine duramente composite e calcolate. Se il Gatto si limitasse a dar voce soltanto a quelle sparse note di sensualità meridionale che formano le « isole » p i ù vive del suo vo– lume, non c'è dubbio che le sue prove risulterebbero fin d'ora p i ù felici. Ne fanno fede le tre strofe di Erba e latte, già citate da altri, dove tor– nano, su un'accordatura p i ù acre dello strumento e non senza una nota sforzata, alcuni accenti che sarebbero piaciuti al Gaeta : Mansueta di campani, la sera remota alle finestre pallide di cielo „ odora umido, e tace in gradini la casa vuota. Svanisce, continuo tepore di gelo nella bottìglia verde, il latte: nuvole chiare lontanano nel fioco armonioso tacere della campagna. Sembra compiuto nel limitare della mia casa il sonno delle riviere. Beato vòlto al sereno, quasi la notte m'apra continuamente a sgorgare in fragranza. Tepida e lieve, cauta, mi lambisce una capra : odora d'erbe e di muschio la stanza. U n a breve prosa : Amici : Abitiamo in una sola piazza, tutti: la notte si parla a stanza aperta dai Ietti. E la città, lavata dal cielo, la riceviamo nel petto, tra le braccia, come un'amante fresca. Napoli ci bacia : fragorosi cuscini passano alla testa ubriaca. In camicia gridiamo alla bella giornata : e mascoloni e spettinati ci facciamo la barba agli specchi dei balconi. Non sarebbe facile, s'è avvertito, moltiplicare gli esempi. Del resto essi non farebbero che semplificare e falsare una figura d'artista che si presenta tanto p i ù attraente quanto più indefinita. Oggi come oggi i l Gatto sembra incline a quella forma di esasperazione intellettuale della sensualità che va, non si sa perché, sotto il nome di metafisica. L e pa– role gli si gonfiano allora d'imprecisi e allusivi significati; gli aggettivi si divàricano, perdono contatto e anziché stringere eludono; e le remi– niscenze d'altri poeti s'affollano anche nei tratti più vivi (Golfo, scirocco d'albatri svogliati chiudi la vita tarda che s'impiuma di bianco...) senza riuscire tuttavia a farci dimenticare che Alfonso Gatto esiste già in quanto poeta. Esiste in quel suo sforzo di dare un'espressione dura, oggettiva, ai sentimenti più sottili e alle nostalgie p i ù indefinibili; e nel suo « sogno di morte estatica », nel suo rifiuto costante di una poesia che sia soltanto sfogo, confessione e discorso. I l torto più evidente del

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