Pègaso - anno V - n. 2 - febbraio 1933
2 I O M. Moretti o della cameratafiorentinao della riforma di Gluck: tratto tratto alzava gli occhi alla parete per rivedere l'angioletto mu– sico di Giovanni Bellini o l'estasi della Santa Cecilia di Raffael– lo o il piglio del sonator di liuto del Caravaggio. Talvolta, dopo averlo brandito, osservava a lungo l'archetto ricordando certe informazioni che lui le aveva dato quasi con alterigia, e cioè che l'archetto per contrabbasso è il più breve, pesa cin– quantotto grammi, misura settantacinque centimetri: e la bac– chetta è di legno di Pernambuco, la bietta è d'ebano, i crini di cavallo bianco sono duecento (e lei avrebbe voluto contarli). Poi siriposavaleggendo i libretti d'opera. Quando giungeva a una romanza, a un gruppo di versi più sostenuti, cercava d'im– maginarne la musica, di diventare lei musicista. Più spesso pen– sava a lui come lo aveva visto la prima volta, come lo aveva visto suonare il liron (menar l'archetto di contraggenio, a capo in giù), come lo aveva ascoltato parlare e poi ridere amaro e crudele;ricordavacome era stata baciata la prima volta dopo ch'egli le aveva detto brutalmente che le donne del paese eran tutte « c o s ì » , tutte « pu ». — Pu...., — ripeteva lei col pensiero, non resistendo alla tentazione difinirla parola che le pareva sempre scandalosissima. S'avvicinava all'uscio in punta di piedi, allungava la mano, ratteneva ilfiatoe girava la chiave, immaginando che così si facesse in una stanza d'albergo quando una coppia raggiunge l'arbitrio, poi andava a raggomitolarsi sul letto di lui e restava così fino a tardi. Talvolta era calma, scriveva. Pensando che lui aveva scrit– to della musica, lei avrebbe voluto scrivere dei versi, ma non sapeva scrivere in versi e si ribellava al martirio di dover contare le sillabe ammettendo quella specie di tirannico nesso o legame fra il cervello e le punte delle dita, quasi le unghie. Leg– geva anche i libri che aveva portato qui dalla sua stanza in– sieme con qualche piccolo oggetto, un tagliacarte, un vaso, un piattello di ceramica che bonariamente diceva : « La dona che la tasa, che la piasa, che la sia dona da casa ». Ora questo piat– tello che le aveva dato di recente sua madre, serviva da ceneriera. Fumava. E le veniva daridere,scioccamente, come a una visio– naria, a una pazza, perché aveva pensato (o come mai?) a quella gran scena dell'Iliade in cui il corpo di Ettore, — del Priamide Ettore, — viene onorato e consegnato al padre.
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