Pègaso - anno IV - n. 12 - dicembre 1932

• A. F. DoNr, Le più belle pagine 745 ~oi _nemiciiss~moAretino, il Doni, se resta indietro a qualcuno per l'arte, h vmce tutti per la gran ricchezza delle trovate, e il modo tutto i;uo di swollar da sé, appena nascono, immagini idee e parole che ancora sen– tono l?, sta:cco e il tuono della ~ua ,voc~. E pi~ ci piace il Doni ogni volta che prn direttamente parla d1 se, s1 descrive nel suo carattere; e sii offre da sé ai lettori come se lui stesso fosse un personaggio di novella o di commedia. Eccolo sui trent'anni, disoccupato, che cerca un impiego all'energia o soltanto alle voglie che si sente dentro. Era già stato frate servita a Firenze, fra' Valerio, ma per pooo; poi scolaro di leggi a Piacenza; ora è prete secolare (vive però con « mogliema posticcia)), in « legittimo adulterio», e ha figliuoli) ed offre i suoi servigi. Sctive dunque al ve– scovo Giovio: « Io sono fiorentino, prete, mi diletto di scrivere, cantare, sonare, poetizzare. Io sono galantuomo, ho bel viso, son ben fatto, vo diritto nella persona; mi specchio, mi setolo, mi pettino. Da pedante e cappellano in fuori, io farò ogni cosa>>. È un prete, ricordiamo, che scrive a un vescovo; ma la tonaca gli pesa, esser chiamato sere o don non vuole; e i suoi compagni, gli amici, i suoi pari, non li va certo a cercare in coro. « Non scuffiai mai magnotta che non fosse sudata dal mio cer– vello. E l'abbaiar d'un coro non mi conosce .... Tutta la mia pratica è di oeretani, di questi vendileggende, sgherri, ,soldatelli, furbi e simil gente che l'attaocherebbono a San Rocco .... Poi se voi mi fiutaste, non so nulla di p·rete, ma puzzo piuttosto di pazzo>>. Spavaldo ma malinconico, con– fessa .... « io mi sono a noia da me medesimo; e spesso spesso metto tutti i miei panni sopra un uomo di legno e, fattomi indietro due passi, rompo la tregua con la mia berretta e col mio saione, con le pianelle e con la toga .... E fo una bravata a quegli straoci da me solo e grido, tanto che fo correr tutta la casa all'arme. E quando io sono in collera da dovero fo alle pugna e lo getto per terra dandogli del manigoldo. Ma ecco che uno mi chiama, - o Doni-! (ché cosi ho detto loro se non vogliono ch'io gli tambussi le coste o le schiene) e io a un tratto chiuggo gli occhi e mi vesto alla cieca e salto fuor di camera. E benché io mi abbia rimesso que' panni .... penso che sian rimasti attorno a quell'uomo di legno>>. In tanto disordine, sotto il pungolo del bisogno, il Doni riuscì pure a scrivere libri e libelli di tutto; diventò lui il più accanito e intrepido scrittore di quel tempo che pure conobbe scrittori torrenziali. E non fece gemere i torchi soltanto per metafora; perché prima a Firenze e poi a Venezia dove passò tutta l'età matura si fece tipografo delle opere sue e d'altri; e le sue, così in fretta le svesciava, da poter dire dei suoi libri che cc prima si leggono che sieno scritti, e s•i stampano innanzi che siano composti >>.E attaiccò e si difese da colleghi e concorrenti in polemiche (specie quella contro il Domenichi e l'altra contro l'Aretino) che restarono famose e ferooi tra le feroci polemiche letterarie d'allora. Il Domenichi poco mancò non gli riuscisse di farlo impiccare; all' Are– tino predisse addirittura l'anno della morte (e fu buon profeta) e non ristette dal morderlo finché, nell'anno da lui predetto, il mortal Pietro Aretino (come lasciò scritto un contemporaneo) fu portato aU'altro mondo da una cannonata di a.poplex·ia. Ferocie letterarie che il candido Tiraboschi non volle neppure crederle. BibliotecaGino Bianco

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