Pègaso - anno IV - n. 11 - novembre 1932

Due capitoli inediti del Leopardi 517 di ma,teriali, che ben presto alJba,nùonò. Circa due anni dopo la let– tura dei trecentisti consigliatagli dal Giordani e da lui iniziata ap– punto nel luglio del '17, lo invogliò a riprender la materia ùel trat– tato, di cui mise giù un certo numero Lli pagine; ma poic.hf s\wcorse che gli sarebbe stato più difficile lo scegliere che non fu l'acc umulare, piantò di nuovo ogni cosa, e non ne fece altro. Il chiaro leopardista e mio egregio amico Giulio Augusto .Levi, in una comunicazione al Gior– nale storico della letteratura italiana (vol. XOI, fase. 271-72), ricer– cando quale potesse essere questo iniziato rifacimento del Saggio, col suo solito acume credette dimostrare che quello non fosse altro se non il secondo pensiero dello Zibaldone, contenente una favoletta di Avieno, presentata con stile arieggiante quello del dugento o del trecento, e che porta la data« luglio o agosto 1817 ». Il Levi si lasciò sedtu1:e dalla coincidenza delle date, e dalla esortazione che il Giordani faceva il 15 aprile '17 a Giacomo di leggere i trecentisti. Ma se il 5 dicembre suocessivo Giacomo scriveva al Giordani che la consigliatagli lettura l'aveva, nel passato luglio, invogliato a stendere il trattato degli er– r<Jri popolari degli antichi, questa lettura così recente non poteva aver prodotto sul Leopardi tale effetto, da fargli assimilare la lingua e le maniere dei trecentisti, come non senza deliberato proposito, ma sin– golarmente e isolatamente, egli si provò a fare riproducendo la favo– letta di Avieno. E dico «singolarmente»; perché se paragoniamo questo secondo pensiero con -gli altri che lo seguono, scritti intorno allo stesso tempo o poco dopo, e con altre scritture conternporanee del Nostro, -come ad esempio la Lettera dionisiana, e perfino con le elaborate let– tere che privatamente scriveva al Q-iordani, vedremo subito una gran differenza tra lo stile peculiare e cercato della favoletta e quello che allora gli veniva fatto di usare quasi senza avvedersene. 'È vero che il Leopardi in quei primi pensieri dello Zibaldone propugna e loda la spontaneità e la bella sempliçità nelle scritture e in ogni lavoro d'arte; e lamenta che, salvo pochi scrittori rimasti illesi, l'arte moderna sia caduta nella corruzione per l'eecessivo accrescimento di essa arte; ma è anche vero che nel ricordare la semplicità degli antichi, e i molti difetti in cui quelli appunto per la loro semplicità e ingenuità cade– vano (vizi d'Omero, concetti del Petrarca, grossezze cli Dante, seicen– tisterie dell'Ariosto e del Tasso), come mette insieme i greci e i latini, così anche appaia i trecentisti e i cinquecentisti. Né questa è l'unica incertezza o contraddizione che si può scoprire sia nel Saggio, sia neglÌ. scritti precedenti alla cosiddetta sua conversione letteraria. Comunque, il principio del rifacimento del Saggio, non è quello immaginato, sia pure ingegnosamente, dal Levi; il quale è passato sopra a un particolare importante, che cioè il Leopardi dice di avere sc ritto po che «carte», laddove la favoletta di Avieno è invece chiusa in pocl.te «righe». Con ciò io non intendo certamente fargli un ap– pu nto di n on avere imbroocato giusto, e cli non avere indovinato quello che potevan rivelare le ca1·te napolitane a chi, come me, avesse avuto modo ed agio di esplorarle nei lunghi studi fatti su di esse. Ora io ho potuto trovare, fra molte altre coAe o sfuggite o deliberatamente omesse dalla Commissione governa tfra, anche queste «carte», che non BibliotecaGino Bianco

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