Pègaso - anno IV - n. 11 - novembre 1932

Solitudine 599 xv. Eravamo stanchi, ma io aggrappato al bisogno di lei, e nella mente ottenebrata dalla veglia scompariva, il pensiero d'ell'amore, dei nostri rapporti, del nostro domani, come una vaga fantasti– cheria: quello che mi occu1Pava era la solidarietà di quella solitu– dine, come un attestato di vita. Passando davanti a un albergo solitario in vicinanza d'un fiui:ne, ella disse che sarebbe stato bene scaldlarci un poco. La padrona era in piedi, una stufa era ancora tiepida dalla sera prima. Il caffè era aspro. Apparve il padrone, e io pensai che quell'uomo e quella donna s'erano destati nello stesso letto, da un riposo non travagliato da nessun pensiero. Tra di loro l'amore era un istinto tranquillo, sufficiente alla vita comune e dei figli. L'orto che nell'alba si scorgeva dal finestrino, aveva certi fiori che parevano di cera, intramezzati ad alberelli d'a frutto co- 1Perti di paglia contro la brina e il gelo. Poche piante per ciascuna specie, fitte, dense, grevi, tra l'odore del fimo: i fiori vi stavano enormi e s~nza privilegi, mescolati a mille altre piante, come i figli d'un amore che non conosce turbamenti. Quello che riguardava me ed Elfrida in quella vita semplice, in quel riposo e in quella grande stanchezza, mi apparve un lungo sogno senza logica. La pad'rona ci guid'ò in una stanza destinata a noi, tinta di azzurro, con una stufa da un lato, un letto grande, un tavolinetto con sopra pezzi dl'una lettera lacerata da qualcuno di passaggio non so in qual giorno. Come in un'ora di tempesta avemmo bisogno l'uno dell'al– tro; ella aveva preso trOIPPO freddo, era stanca, e io mi studiavo di scaldarla un poco; le spalle, le mani, i piedi; e lo facevo con una tenerezza quasi animale. Ecco la donna che avevo amato. La strin– gevo tra le braccia per difenderla dal freddo, ella tremava battendo i denti; poi sentii il battito delle sue vene, un blando calore che si diffondeva, e il torpore del sonno. All'unisono battevano i nostri cuori, nel sonno mi sentivo felice e senza più memoria, e come un fuoco cui ella si scaldasse. Ella si stringeva una mia mano sul petto. Mi destai improvvisamente preso dal fred!do. Il posto di Elfrida era vuoto, e di lei più nessuna traccia nella stanza. Mi vestii in fretta. Mi dissero che era !Partita con la sua macchina poco prima. Questa fu la nostra notte. Dopo non la vidi più, né mi riuscì di trovarla. Ricevetti qualche mese d'opo una lettera, da un luogo che ella non voleva definire ; si ricordava come io mangiavo la frutta, e mi diceva che con lei, in quel luogo, un'altra donna, ita– liana come me, mangiava la frutta allo stesso modo. I suoi denti forti, la sua avidità, le ricordavano me. Era questo il solo accenno al nostro passato. iMi avvertiva che ella aveva pensato molte volte a questa sua condizione e a questa sua sofferenza, e che ora ne era BibliotecaGino s·anco

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