Pègaso - anno IV - n. 11 - novembre 1932

Solitudine 595 vano luoghi lontani e selvaggi dove non c'erano che appelli di ani– mali, e si mescolavano ai mille turbamenti irragionevoli che sor– ff)rendono l'uomo civile. Io la tenevo fra le braccia, e sentivo che ella era ferita .d'atante cose; quel linguaggio della macchina sonora era l'_illusione d'un paradiso promesso e malinconico, d'un mondo dove 11 dolore diventava una voluttà. Elfrida stava con le mani in– trecciate alle mie, io sentivo il suo cuore battere, sentivo la forma delle sue spalle fragili e delicate, il ginocchio alto e vivo, e mi prese un'infinita tenerezza di lei. - Quanto tempo abbiamo per– dluto, - le dissi. - Quante cose crudeli ci siamo dette, invece di amarci. E io che ti volevo amare. - Ella si adagiò meglio sul mio petto, la sua testa era posata sul mio braccio, e il viso era rivolto in alto. Col viso levato si mise a piangere. Le lacrime le stagnavano nel cavo dell'occ:hio perché non potevano scendere attraverso il solco delle guance, si sparsero da una parte quand'o l'orbita fu colma, e mi bagnarono le mani. - Piangi, ipiangi, - le dicevo. E invi– diavo quella rugiada che scendeva come un'acqua su un campo indurito d'all'inverno. Odorava di febbre e di malattia, in quel mo– mento. ,Si levò, e la sentii che andava su e giù per casa. Era una musica di rumori noti, che avevano qualcosa di rassegnato e di stanco, come se gli oggetti avessero una voce e un sentimento. Si 1Presentò a me nuda e raggiante, nella luce accesa, come un lotta– tore sull'arena. Era presso una porta, e mi ricordai puerilmente di un'immagine di Eva sulle soglie del Paradiso terrestre. Le strettoie dlell'abito le avevano macchiata la pelle, i suoi fianchi portavano l'impronta d!'un cilicio. Il congedo fu muto, coi passi che si senti– vano troppo forti, con la cura di andare a cercare i vestiti, di ri– mettersi in tasca l'orologio, una serie di piccoli atti nei quali ella mi assisteva, con una sottomissione familiare. Sulla [Porta avrei voluto parlare ma era troppo tardi. Levai la mano e cominciai: - Il torto, il torto, sai quale è stato? - Ella sorrise e io sentii chiuder.e. la porta alle mie spalle, ma con un rimorso cocente, come se anche questa volta avessi compiuto un delitto. « Il torto», pen– savo fra di me, « è che ci siamo trattati come due cose, e siamo in– vece d,'uecreature, come due estranei e invece siamo soltanto uoino e donna>>. Provai una violenta ribellione, e dissi a me : « Mai più, mai più)). XIII. D'una cosa mi ricordai dopo che ebbi passato con lei il giorno seguente. Ohe i nostri discorsi s'erano fatti più distaccati e lontani, come se ci dovessimo lasciare. Ella aveva messo in ordine la sua casa, aveva dato tutta un'altra disposizione a certi oggetti; ella stessa indossava un abito severo, che non avevo mai veduto, e aveva BibliotecaGino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy