Pègaso - anno IV - n. 10 - ottobre 1932
Solitudine 457 ella mi aveva guardato l'ultima volta alla luce, come mi aveva pas– sato la mano sulla testa. Speravo che altrettanto ora accadesse ai suoi ricordi, e già mi legava a lei questa complicità. Salivo le scale della mia pensione, mi ritrovai nella mia stanza dove la cameriera aveva deposto sul tavolo accanto al· letto, con un metodo che lì per lì mi irritò, la mia colazione mattutina. Il tè era divenuto freddo. La stanza era intollerabilmente decorata di stucchi, di co– lori, di mobili che non mi dicevano nulla, e che nel loro ornato ec– cessivo potevano ricordare' i boccali di birra, le pipe di schiuma. Quelle erano le cose che Elfrida aveva sempre avuto sotto gli oc– chi nella sua infanzia e nella sua prima gioventù, mi dicevo, e bisognava accettarle come se fossero la guid'a verso di lei. Ma per– ché io facevo tutti questi sforzi verso d'i lei, per avvicinarmi a lei ? In questo riconoscevo la facoltà degli uomini di redimere ogni più basso sentimento, e in me non era altro che il ricordo d'una scam– bievole offesa. Mentre studiavo la mia grammatica, dalla stanza vicina si destò un grammofono. Era il mio vicino di pensione. Scomparve la stanza, e mi ritrovai in un cielo lontano, dove un coro di d'onne si lamentava e diceva : - Poter tornare, poter tor– nare .... - Io immaginavo quei visi, quel coro, quel paesaggio rim– pianto. Esso si trovava prigioniero delle grandi città, in una sca- . tola dalla quale non l'avrebbe liberato nessuno mai più. Anch'io avevo voglia ora di fuggire, di incontrare quella voce, di perdermi in quel mare, in quelle isole lontane, e dormire: Era un gioco cru– dele, questo, di narrare, agli uomini affannati, di altre terre lon– tane, di evasioni, di fughe, e nello stesso tempo di tenerli prigio– nieri dei bisogni e dei doveri. La civiltà non ha inventato nulla di più raffinato per far sentire agli uomini la loro condizione, le im– possibilità della loro vita, gl' inutili sogni. Il mio vicino dovette farlo apposta, perché poco dopo sentii una voce che cantava: « '0 sole mio)). Uscii per non· mettermi a piangere. Questa era una cosa intollerabile, che mi si fosse attaccata come un'epidemia, la debolezza dell'uomo moderno, così duro, e così fadle al pianto. Da un punto all'altro d'ella città mi lanciarono i treni e gli autobus. Mi aggrappavo al ricordo di Elfrida come della sola persona che tra tanti milioni di esseri mi conosceva, e tuttavia notavo che mille persone aveYano i suoi stessi caratteri, o qualcosa che somigliava a lei, un cenno, un modo di guardare, e il modo d'olce e quasi at– tento di inclinare il capo da una parte. Ven,o ognuna di coteste persone che potevano rassembràrla mi volgevo, mi legavo per un attimo, e anch'io facevo lo stesso gioco di esse, ed esse stesse si dovevano sentire involtt:>nell'elemento fluttuante che mi dominava. Pensavo attraverso quali rìcordi di vite anteriori, di rassomigli:;mze con cose vere e finte sono fatti i rapporti degli uomm1. Decisi di tornare a casa e di far colazione nella mia stanza. BibliotecaGino Bianco
Made with FlippingBook
RkJQdWJsaXNoZXIy