Pègaso - anno IV - n. 10 - ottobre 1932

Solitudine 455 e una vasca. Ella girò un rubinetto e la vasca si mise a gittare. La voce ,dell'acqua sgorgava libera come un canto rimasto represso, e la vasca lo riecheggiava malinconicamente. Ella descrisse come :fiorivano quegli alberelli, che erano meli potati all'altezza d'un uomo. La città, sull'orizzonte diventava livida, attraverso le' nubi il sole librato pareva traversare orizzontalmente il cielo fuggendo. prima di rassegnarsi a tramontare. Già l'ombra copriva il giar– diino. Nella sala a strisce grigie arrivò la luce come una cosa di– stribuita in quella solitudine, una razione di luce, un messaggio del mondo esterno. Veniva fatto di pensare che alla stessa ora, in migliaia di casé., si levavano oochi confidenti alla lampada. VI. Mi svegliai senza capire alla prima dove mi trovassi, con un' im– pressione di polvere che si fosse depositata dappertutto durante la notte, e il languido calore della stufa grande di maiolica. Le tende abbassate non lasciavano scorgere l'ora né il colore del tempo, tutto pareva levarsi d'a un'umidità notturna alla luce, come negli orti all'alba. Non si sentiva una voce. Solo quando mi mossi per cercare il vestito e sentii l'appiccicaticcio dell' impian– cito di legno, mi ricordai della sera che era preceduta. Mi ricordai insieme come era distante il mio paese, rifeci mentalmente la strada, e fuggendo con la fantasia e ritornando in su in un baleno, rividi chiaramente la vigilia d'i quel giorno. Un'impressione co– cente, amara, come se mi fossi degradato. Gl' invitati, poiché avevamo cenato con alcuni invitati, se n'erano andati insieme. Io ero sceso ad aprire la porta dall'interno. Poi ero risalito ed ero rimasto con Elfrida. La solitudine della notte pareva un sotter– raneo per uno spazio immenso, le lampade avevano perduto d'i splendore, un poco di vino era rimasto nel mio bicchiere, il silen– zio era una cosa più ebbra del vino stesso. Infine quell'abbraccio, -come se fossimo, io ed Elfrida, due ragazzi sperduti in una fo– resta. E l'improvviso atteggiamento di lei, come se si ripromet– tesse dii assaporare un frutto strano, un vino d'un altro paese. Mi vergognavo davanti a me stesso, come d'una degradazione di cui non avessi mai sospettato l'esistenza. « Trattare un uomo cosi. Trattarmi come.... ». /Ma; tante volte non avevo immaginato un fatto -come quello, improvviso, con una fantasia licenziosa, ac– corta, con un senso minuto di ogni particolare? Tutti questi par– ticolari, dapprima fantasticati, nei libri, nella musica, nei balli, nelle rappresentazioni, mi tornarono alla memoria, remoti e re– centi come un incubo. Come Elfrida aveva agito, come era sicura del suo potere, senza l' idea che io pensassi, come se ali' infuori d'ei mezzi di esprimèrsi d'una lingua che io conoscevo poco, ve ne BibliotecaGino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy