Pègaso - anno IV - n. 10 - ottobre 1932
450 C. Alvaro se ripetessi meccanicamente un atto, mi misi a sorridere anch'io, ma d'un sorriso che mostrava i denti, come il cenno d'un animale che vuol farsi capire. Ci trovammo insieme. Una era delicata e fine, con _una voce un poco tentennante, come se parlasse sempre da sola, era lucente e rosea come una porcella.na, ai riflessi d'un fuoco vicino. L'altra era bruna e forte, con un sor riso da complice. Ac– canto a costei si aveva un'impressione di caldo, e questo io sen– tivò camminandole accanto quando ci trovammo fuori del caffè, sotto i duomi degli alberi. Il paesaggio perlaceo si ripresentava ai miei ,occhi d'opo la rosea luce di quell'interno, più svanito, più profond'o, con voci caste, schiocchi continui sotto i nostri passi, e un senso di complicità innocente, di libertà da selva primitiva. La mia prima ridente aveva una voce fredda e ostinata, con toni di comando. Il bosco aveva in basso una fosforescenza assorta, come se la luce fosse rimasta impigliata. Gente errava come om– bre, le voci avevano echi rotti. Su un lago gelato una slitta con sopra d'ue ragazzi scivolava piombando da un liev~ pendio, e pa– reva che la superficie del lago dovesse crocchiare. Tutti e tre in coro avanzavamo, in coro sgrigliolava la neve, e le scarpe di tutti e tre in quel bianco sembravano uccelli radenti, ne avevano la forma. Più lontano in quell'oscurità fosforescente un treno coi lumi accesi aspettava e dava un'impressione festiva. Dicevamo cose molto semplici, e fantasticavamo sull'aspetto delle cose in quella luce. Un gabbiotto di legno, grande come una garritta, e con un fumaiolo, sembrava d'ovesse partire da un momento al– l'altro come una macchina primitiva, una caricatura della mac– china. Il silenzio che ci fasciava era soffice e dava un' impres– sione d' infanzia, eravamo parenti con le ombre che svanivano via pei viottoli. La compagna bruna cantava come se tremasse nella vicinanza dli noi due che sentiva improvvisamente pieni uno del– l'altro, e invasati al punto da non poter dire la più semplice pa– rola senza un vago tremore su cui non c'era da ingannarsi. La donna bionda si chiamava Elfrida. IV. · Il giorno dopo dovevo andare a prenderla nel suo ufficio. Il treno mi depose alla Friedrichstadt, una stazione soprelevata su un ponte della Sprea, tutta di acciaio, ponti, parapetti, treni, un angolo che forma l'orgoglio dei berlinesi. Sotto il ponte a quattro binari, la nera tettoia di stile :floreale e i grandi pilastri di ferro dello stesso stile, scorre l'acqua del colore •d'una laguna; nel fiume si specchiano le insegne luminose delle due rive, e sulle rive cor– rono le automobili : sembra una di quelle illustra,zioni d'elle geo~ BibliotecaGino Bianco
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