Pègaso - anno IV - n. 8 - agosto 1932

242 A. PANZINI, La sventurata Irminda luce eid è al tempo stesso presente dappertutto. E questo, alla fine, può ' . . esser consolante per Irmincla: che a rubarle il posto non sia, come lll -vita, una donna, - la Trona, la, Mastraca, o la Oénet; - ma una diva immortale; anzi, a esser precisi, un immortale punto interrogativo. Si sa che Panzini codesto punto interrogativo l'ha sempre tenuto d'oc– chio (non si spiegherà con ciò anche il suo scrivere rotto e rimbalzante, in cui, appunto, predominano, più o meno visibili, i movimenti interroga– tivi?); ma forse così nettamente, darnnti alla propria e alla nos,tra coscienza egli non l'aveva posto mai. La virtù qui è davvero il pro– blema capitale, anzi unico e solo; e questo libro mi pa,r dunque signifi– care, il maggiore sforzo che Panzini abbia mai fatto per u cire dalle sabbie mobili della sua abituale perples,sità, sul terreno saldo d'una sag– gezza positiva. La virtù non è, no, un nome vano,· anche se per tutto compenso ri– ceve bastonate, ingiurie e sar,casini; e ehi la serve, col sacrificio doloroso del piacere, non è un pazzo, anche se di pazzo può aver l'apparenza in un mondo che, da quando è mondo, continua ostinatamente a fare i suoi comodi, e a peggiorare.... Tale, su per giù, l'insegnamento del libro ; assai conforme, come si vede, alle ,sane tradizioni della letteratura am– maestrativa, e particolarmente affine a quella dello stesso Gasparo Gozzi, che, se razzolava male, predicava però benissimo. Si intende che Panzini non enuncia i ,s,uoiveri e.on la gTinta dura e, la voce perento-ria del catte– dratico, ma li condisce di giochi e scherzi e motti piacevoli, tra i quali bisogna andare a cercarli; e anche questo, se badiamo bene, rientra _nella buona tradizione, per via di quel famoso detto deil Tasso: che all'egro fanc.iul bisogna porgere succhi amari in una coppa di dolcezza. L'inse– gnamento è gaietto, ma resta sostanzialmente austero e, come sii dice, edificante; né io oserei dubitare della sincerità del maestro, sol perché lo vedo sorridere perpetuamente. Anzi! avviene tanto spesso d'ammirare con reverenza una virtù musona, che scopriremo poi essere la sua sorella germana, l'ipocrisia! Dunque Panzini_ merita, come maestro di virtù, tutto il credito pos– sibile; e perché quella è sempre stata in fondo la sua passione, e perché ne sa parlare, anche in quest'ultimo libro, senza sussiego. ,Sarà bene, però, precisare di che virtù si tratti, vir-:toche, perfino in una materia cosi importante per la salute dell'anima, tante son le teste e tante le sentenze. Per Panzini esser virtuoso vuol dire, certo, tenersi per tutta la vita sce– leris pitrus, e fuggire gli eccessi dellusso, e sottrarsi all'esecranda fame dell'oro, e condannare gli abusi dei potenti; ma tutto questo, che è rias– sumibile nella CO['aggiosa mediocrità oraziana, non fa anc6ra tutto il suo virtuoso. C'è un'altra dote necessaria': quella della castità, se non asso– luta, come in S1;1,n Luigi Gonzaga (che allora appunto è santità), almeno relativa, secondo le prescrizioni del Concilio di Trento; e questa non pare che sia molto in prègio nella società d'oggi. Qui, per Panzini, è il punto dolente; sul quale egli non si stanca, sorridendo sempre, di richiamare l'attenzione dei cattivelli, che non -sembrano farvi caso. Ci può essere vera virtù in un mondo comandato occultamente (macché! apertissi– mamente) da Venere? ... « L'affare dei due sessi» e « la questione del casto connubio», per adoperare due tipiche espressioni panziniane non devono essere elusi da chi vuol considerare il problema nella •sua' inte- BibliotecaGino Bianco

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