Pègaso - anno IV - n. 6 - giugno 1932
Silvio Benco 735 tono della medesima mentalità imaginativa e senza dubbio furono pen– sati insieme, sebbene '.scritti a non brevissima distanza l'uno dall'altro. Ne La fiamma fredda è narrata la fosca infatuazione di una brutta donna, Arsinoe Vanderra, che ,della propria bruttezza si fa una sorta di alone suggestivo e attira a sé, e li domina, taluni intellettualoidi innamorati pazzi di lei per qualche loro segreta deformità dello spi– rito. Nel Castello dei desideri è narrata la lugubre avventura di un nevrastenico ed epilettico, il Duca Ulrico, che abbandonato dalla con– sorte, data in figura di Matelda o· Lia, si consola della propria soli– tudine ricoITendo ad amicizie spaventose : quella del tisico Zoilo che gli muore nel castello dopo una serie d'orgie rusticane culminanti in mito d'Ofelia; quella del sinistro Bertramo che si è assunta la parte, mezzo stirneriana, mezzo apocalittica, di moralista della morte e me– dico delle anime a roveseio. Sono vicende, come si vede, desunte dalla gran voga di certe idee e certe filosofie catastrofiche del tempo; portate alle estreme conseguenze col gusto cosiddetto dell'orrido e di certa pittura nordica cui lo stesso Fogazzaro non era riuscito a resistere. Medusa l'eroina della Fi(llYfl,ma fredda e molluschi r lyons che la circondano, essi ,si compiacciono di naufragare in un'atmosfera temp,estosa, propria di capitale e di reggia alla balcanica. Atmosfera che s,i addensa poi ,sul ,finale del Castello dei desideri, aggravata dalla cadenza di marcia funebre dell'intero ro- · manzo e dalla goffaggine dei contrasti tra i per,sonaggi. Eppure sa– rebbe bastata un po' d'ironia per farci accettare quelle battaglie na– vali, quelle ,scene di tumulti e di sparatorie, tutto quel fumo e quell'oro che nei due romanzi sono profusi a illustrare la parte che vi hanno re– galità e p3JSsioni politfohe secondo le concezioni dell'epoca. Di scarso valore artistico, però non inferiori ai coetanei romanzi del D'Annunzio, la Fiamma e il Castello rivelano ispirazione libresca e refrattarietà della fantasia a -sviluppare vicende e persone nel tempo. Benco non narra, dipinge; incapace anc6ra di afferrare con la naturale secchezza della sua penna, volti e aspetti, tenta di rifarsene in recuperi vistosi, cir– cuendo con lunghe pennellate, sfumando con aggettivi, risolvendo in panneggi quanto non gli riesce in pure linee ; sopperisce, in altri ter– mini, con lo ,stile masticato che pareva, allora, prerogativa e condizione d'ogni opera d'arte. Visti e .scritti in quello stile i per,sonaggi scivolano sulla pagina quasi senza ombra di vita, si ,dissolvono nell'intreccio floreale di idee e di istinti del quale volevano essere incarnazioni. Ma fuori dalla rap– presentazione romanzesca, quel :florealismo appare evidente, e non si può dire che a Benco sia mancato il senso dell'epoca sua. Quei due ro– manzi si riducono; dunque, a valere per la intrinseca qualità dello scrit– tore : che è di saiper conoscere e analizzare malattie, debolezze e forme mentali caratteristiche del tempo. Si riducono a valore di «~aggi», di « studi del costume» ; rica;dendo nei limiti di un genere letterario che oggi ,è incontrastato campo del giornalismo ma che giornalismo e basta non si può definire. E mi spiego con un esempio. Se a Stendhal non fosse riuscito di dar vita, distacco e continuità di personaggi ai suoi eroi del Rosso e nero e del Lucie'fl<Lewwen, quelle due opere avreb– bero tuttavia grande importanza : il Rosso e nero come una s~rie di BibliotecaGino Bianco
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