Pègaso - anno III - n. 12 - dicembre 1931

Elefanti e altre bestie 671 non vedo, non odo niente di preoccupante. Neppure il mio amico. che pure ba l'occhio e l'orecchio abituati alle apparenze e ai ru– mori della foresta, capisce che cosa ci sia. Gindo confabula col negro della scure, poi lui imbraccia il fu– cile, l'altro alza la scure, e tutt'e due s'avanzano adagio adagio, in punta di piedi, che neanche si ,odono i loro piedi nudi premere le erbe, la coltre di foglie che è per terra. Il lampo, il colpo strappante di una fucilata: Gindo ha fatto fuoco, l'altro ha abbassato la scure. Ambedue fanno un salto in– dietro, arretrano svelti, senza voltare la faccia, come sospinti dal rinculo del fucile. Il taglio della scure è scomparso nella polpa d'un albero : la scure è rimasta là. . Il negro ora dà un grido, che pare l'urlo d'una bestia ferita, ma che dev'essere un grido di contentezza, perché il negro si è voltato verso di noi col volto festoso, raggiante. Gindo ci chiama : - Il serpente!. .. Venite! Il serpente? Parev~ una liana, ed era un serpente! Noi dove– vamo_ passare sotto il serpente. Un brivido mi corre per la schiena: prima di accostarmi a Ye– dere il serpente morto, -:- spero almeno che sia morto, - do un'oc– chiata in giro, il fucile pronto, per verificare i connotati delle liane che attraversano serpentine il passaggio. - Attento con quel fucile! Trasalgo, come se non una voce ma il contatto di un essere vi– scido mi abbia sfiorato la fa<;cia. È il mio amico, che si è sentito sfiorare un orecchio dalla canna del mio fucile; ma anche lui, che serpenti ne ha visti parecchi, certo più di me, è rimasto lì perplesso, visibilmente turbato anche lui. Il serpente è allungato sull'erba: il colpo di scure lo ha spac– cato quasi di netto, a mezzo metro dalla testa, e nella grossa tei-ta ha lo sdrucio della palla: eppure ancora si scontorce, si dibatte, ondeggia, e avvita disperatamente la coda per far presa intorno al calcio di un albero, per tentare ancora di rizzarsi, di slanciarsi. Mugola, geme,· alita forte, soffia come uno stantuffo in moto, perché deve sentire che, mentre la forza, la vita gli sfugge, a poca distanza c'è abbondante odore di bistecche d'uomo. È un b~stione lungo, poco più poco meno, cinque metri: verde– chiaro come la cannadindia, con rabeschi e chiazze giallo-terra, con picchiettature nere, sul dorso; tra rosato e biancastro, asperso d'una polvere d'ambra, sul ventre. Visto in un museo, imbalsa– mato, si potrebbe dire veramente una bella bestia: qui. mezzo vivo, fa tutt'altro effetto. Gindo gli tiene -il fucile puntato addosso, alla testa, che si sforza 'bliotecaGino Bianco

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