Pègaso - anno III - n. 9 - settembre 1931

Livio e la storia della storiografia romana 279 glie, fissa e precisa. Non così interamente la storiografia romana; perché gli storici romani, se da una parte sono sotto l'influsso della tradizione patria e se questa tradizione, che da essi è pur sempre in qualche modo sentita come sacra, non intendono punto di rinne– gare, subiscono per l'altra parte l'influsso del pensiero greco razio– nalistico ed antitradizionalistico e ben sanno quel che la rigorosa indagine storica da essi esigerebbe. · Lo sanno, ma non si mettono per quella via. In fondo, l'insorgere contro la tradizione nella teoria, ripugna al popolo nella prassi più tradizionalistico che mai sia vissuto al mondo. Il blocco della tra– dizione appare agli storici granitico, anche se la ragione potrebbe sgretolarne qualche scheggia, appunto per la smisurata grandezza di ciò che sopra quella tradizione si è costruito, e in certo modo vi . poggia, e perciò nel riportare le leggende patrie, la loro espressione assume un pathos profondo, che non è retorica o ornamento este– riore, ma è partecipazione allo spirito che nella leggenda· si rispec– chia e si effonde, è risonanza .effettiva della tradizione nell'anima di chi si sente Romano ed ama la romanità. Di qui la efficacia che, presso uno storico così profondamente ro– mano come Tito Livio, hanno, pur nella brevità con cui vengono esposte, le antiche leggende. Si legga per esempio di Lucrezia e del suo eroico suicidio; di Mucio Scevola e della audacia con cui af– fronta il nemico della patria e dell'intrepidità onde dà prova tenendo sul fuoco la mano; di Coriolano e dell'impeto furibondo con cui guida contro la patria ingrata i Volsci e della remissività pietosa con cui piega agli inviti della madre e della consorte perché deponga le armi ; di Cincinnato che lavora il suo campicello e che, indossata la toga per ascoltare gli ordini del senato, riceve l'annunzio d'essere eletto dittatore e in pochi giorni, con la sagacia e la prodezza, de– bella il nemico e, deposta la dittatura, torna all'umile lavoro dei campi; di Camillo infine, che, intervenuto a tempo mentre i Ro– mani chiusi nel Campidoglio stanno pattuendo la resa ai Galli e Brenno pronuncia il suo « Vae victis)), proclama che la patria deve redimersi rron coll'oro ma col ferro e sgomina il superbo nemico. E si vedrà come la limpida vena di poesia che scorre attraverso l'an– tica leggenda non si appanni nella chiara e robusta prosa di Livio . e come invece impaludi nella fiacca e scialba e parolaia narrazione che se ne trova nel retore greco Dionisio di Alicarnasso. Ciò che dà calore e vita alla narrazione di Livio, anche se non in tutto crede, come avverte egli stesso, alle leggende che nar.ra, , è il genuino spi– rito romano che pervade lui come i narratori primi di quelle leg– gende, lo spirito romano in cui esse si inverano della loro verità umana e perenne, anche se nei loro particolari e nella cronologia spesso non resistono al maglio della critica demolitrice. Il Greco invee~, dopo Ecateo, appunto pel soverchiare del razio- iblioteca Gino Bianco·

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