Pègaso - anno III - n. 6 - giugno 1931

736 G. Alberti che pnò dirsi il <<piccolo)) capolavoro di Ohaplin solo riguar~~ alle su_e dimensioni La febb1'<!dell'oro può ingannevolmente propore1s1 come 11 capolavoro' assoluto di Chaiplin inquantoché segna nella sua opllra il mo– mento della più larga, ricca, fragrante fioritura; fioritura simboleg– giata da quella ghirlanda di fanciu11e dispensatrici di felicità che si snodano attorno alla sola veramente indimenticabile delle donne di Cha– plin, di solito così deliberatamllnte convenzionali : Georgia Hale. Vien fatto così di pensa-re alla Febbre dell'oro non solo come al più vario e avventuroso film di Ohaplin, ma quasi come a un'avvllntura della no– stra ste~sa adolescenza, tutta, intrisa, di profumi e riflessi, e che ci rie– cheggia dentro indimenticabile e irrevocabile. E certo La febbre dell'oro è la più piena e fresca tra le opere cli Ohaplin, quella almeno più clif– fus;:i,mente poetica, la più teneramente pervasa da inflessioni musicali, libera e traboccante come un ruscello, e in questo senso possi~mo pen– sarla come un'opera romantica,. Tre anni dopo La febbre dell'oro, nlll 1928, venne ll circo, col quale Chaplin sembra averci voluto dare la sua Arte Poetica : difatti a un certo punto Chaplin fa la satira del clown tradizionale che ripete pappagallescamente il suo repertorio fru– sto cli facezie e che sta al vero comico come la retorica alla poesia. Il vero comico, che ottiene il travolgente successo dal pubblico, è Charlot che irrompe casualmente nel circo per salvarsi cla un poliziotto e pro– voca un precipitare di guai. Il poeta, vorrebbe dir Ohaplin, è Sllmpre un outcast un exlege; in questo caso è a,nche un inseguito .... Ed è ne– cessaria la sua presenza irrazionale e sconvolgente in quella program– matica organizzazione di spettacolo chll è un circo, per mantenerne la sana vitalità. Non importa se abbia a soffrire; anzi Chaplin lascia in– tendere la necessità di questa sofferenza. Difatti Gha.rlot deve rinun– ziare a tutto, prestarsi a tutto, fin improvvisàa-si equilibrista, lui la più insta,bile delle creature, per sostituire l'uomo volante introvabile al momento dello spettacolo e che per di più è il suo rivale fortunato in amore: e lassù in alto sulla corda, nel vuoto, la disdetta si accanirà contro il suo già così pericoloso equilibrio, col farlo preda ai morsi di alcune crudelissime scimmie sfuggite da una gabbia. Così, nel Circo, torniamo in un certo senso al Charlot di dieci anni prima, che è a .un tempo Dio e Macchina delle sue opere, accentratore di tutta l'azione: solo che l'impegno è diventato qullllo di un maestro, e il quadro si è straordina,riamente allargato e approfondito. Riguardo al Chaplin della Febbre dell'oro, si potrebbe dire che mentre quello era tutto preso dal piacer(l di prodigare la sua florida, ricchezza, il Ohaplin del Ciroo, assestatosi, la spende con un'assenna.tezza pari alla larghezza. E sic– come ho notato più sopra che nelle Luci della città Oharlot ci si presenta sotto l'aspetto clllll'uomo maturo, aggiungerò che Chaplin in questo film ci ,si rivela giunto a qullllo stadio di maturità creativa in. cui l'artista, totalmente e costantemente cosciente di sé, controlla e bilancia quella partita d'azzardo che si gioca in ogni opera d'arte, colla oculatezza del più destro amministratore. Per questo, per l'impeccabile e vigile pre– cisione di ogni scena ho provato come un senso di secchezza alla prima visione del film : come se gli episodi, perfetto ciascuno in sé si se– guissero piuttosto che svilupparsi in armonica ll necessaria progr~ssione. BibliotecaGino Bianco

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