Pègaso - anno III - n. 4 - aprile 1931
440 G. Stitparich gemelle intravedevo i misteri delle soffitte; appoggirundomivi con la fronte, rimanevo lungo tempo assorto in quelle penombre suscita– trici di fantasmi e m'inebriavo cli quell'odore di tegoli riscaldati, d'aria polverosa, cli ruggine e di legno tarlato. Alle volte mi toc,cava la fortuna d'esser introdotto con tutta segretezza, da qualche serva per lo più, irn quei regni misteriosi, e sempre me me staccavo insa– ziato, col desiderio di ritornarvi: anche le rag1natele, coi raggi di luce imprigionati, mi piacevano là dentro. Apperna potevo, entravo dai portinai, ma .se oltre la cucina m'appç1,riva la schiena curva del sior Gigi, .me la svigmavo prima ch'egli s'accorgesse di me: rno 1 n diceva ullla parola, ma la sua grimta mi faceva paura. Sua moglie imvece, la Oatina, mi voleva, bene: quando inon c'era lui, permetteva persino, sebbene con mille raccomandazìoni, ch'io m'avvicimassi al suo barnchetto da lav,oro. Il sior Gigi faceva l'orologiaio; le pareti della camera e amche quelle della cucima, eraino coperte d'orologi a pendolo, di sveglie, ai SOlllerie: ç1, intervalli, là dentro, il silenzio era improvvisamente scosso da sospiri e da fremiti, a cui seguivruno scatti e cigolii e, d'ogni parte, -suoni squillanti o soffocati. Io, sor– preso sempre, per quanto preparato, attendevo ogmi volta che a quel risveglio succedesse qualche cosa di straordinario e ,oginivolta il ritorno del silenzio .mi procurava una grande 9-elusiollle. Sui ban– chetto c'era poi una tal profusio,ne di rotelle e rotelline, di perni, d'ingrrunag 1 gi, di molle, di viti, di lancette, ch'io mi ci perdevo con lo sguardo come in un cielo carico di stelle, e consideravo quell'ar– ruffato disordine come un poeta l'armonia dell'universo. E forse soltanto questo sentimento m'impediva di trafugare e d'intascarmi qualcuna di quelle rotelline, che avrei tanto desiderato di possedere. M-a il mio rifugio, il mio salotto, il mio teatro, erç1, la casa del signor Pantaleorne, a cui avevo sempre liber-o l'imgresso. -Già var– cando la soglia io mi sentivo un altro, m'impostavo a uomo e vi ero accolto da uomo. La casa del signor Pantaleo111eco,nsisteva d'un nu– mero, per me allora., infimito di stanze e starnzimi, uno dentro l'altro; gli usci di comunicazione erano sempre aperti e i soffitti di tutte spioventi. C'erano tappeti, divallli, ombrellimi giapponesi in quelle sta,nze; io non m'accorgevo per 111ulla·delcontrasto ch'essi facevano con quei muri scrostati e piuttosto .sporchi, con -quei soffitti a sghembo e con quegli abbai111i eh' erarno le uniche :finestr,e là dentro ; e mi pa– reva assai naturale che là ci vivesse il sigmor Pamtaleone e1eo·runte ' "' impomatato, carico di profumi. - 8esa, - chiamava il signor Panta- leone rincasando, ,non appena giungeva al piarnerottolo del piarno sot– tostante e, mentre lui faceva l'ultimo tratto di scale oon grande stro– pfocio di piedi e picchiettio di mazza, .Sesa; a.:n.chese io stavo di– scorrendo con lei, mi piaintava in asso e correva all'uscio : apriva, e aspettava il sno Panta, gli buttava le braccia al collo, lo baciuc– chiava e rientrava con lui stringendoglisi al :firunoo.Il signor Pam- BibliotecaGino Bianco
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