Pègaso - anno III - n. 4 - aprile 1931
U8 P. Monelli non capivo se l'avesse con i suoi, o coi supel'iori, o col nemico. Sotto il ciglio feci per buttarmi giù, ma mi trattenni. Ferracin era ri– masto in piedi; appoggiò il fucile al sasso, cavò dal tascapane due bombe lenticolari, gran lusso in quei primi tempi, me ne passò una. Le accendemmo le lanciammo avanti e in alto, attendemmo lo scoppio, ci buttammo su, Ferracin urlando un, feroce Savoia! Sentii che dietro correvan su tre o quattro, fecero coro all'a solo di Ferracin. Impeto sprecato. Sul cucuzzolo non c'era nessuno, nem– meno stavolta. Qualcuno vide dileguar qualcosa, giù nel bosco, ma non fece a tempo a spararci dentro. La guerra, cominciavo a capirlo, è sempre così : qua,ndo si può, non ci s'incontra mai. Gli uomini si misero sùbito a scavarsi un riparo; con l'attrezzo, con la baionetta, con le mani ; ché già qualche pallottola ricomin - ciava a frullar bassa, specie da quella maledetta trinceina oltre il colletto nudo. Vi feci di fronte un riparo immediato con i sac– chetti portati su con noi, ci misi dietro una vedetta. ,Dopo un po' me la ferirono. Ce ne misi un'altra. Fu ferita dopo un'ora. Mandai un terzo ; uno che mi disse allegro : - Vago a ciaparme la bassa par la licensa. Bastò questo scongiuro perché non mi ferissero più nessuno a quel posto. O forse anche perché a poco a poco la vedetta, pur guar– dando davanti a sé, non cessava d'interrarsi. La terra era morbida fra costoloni di roccia; a cercarsi bene il posto, si andava giù pre– sto; poi,- un sacchetto di traverso per fabbricare una feritoia, si poteva star rannicchiati in una buca che offriva bastante sicu- rezza. Feriti gravi non ne ebbi più. - Passò tempo, di cui non ho.ricordo. 'Ormai il sole era alto, l'aria calda. La fucileria laggiù non era più che uno svogliato martellare. La battaglia era finita; come, non sapevo, nè m'importava saperlo. Il trincerone sotto era sempre vuoto, dei nostri e dei nemici. Le fucilate al nostro indirizzo erano rare ma precise; tagliavan netto un ramoscello o scheggiavano il tronco a cui ci s'appoggiava. Lungo l'affiorar della roccia, proprio nel mezzo-della posizione, accanto al mio solito alberello, grattando il terriccio mi feci una buca stretta da stendermi bocconi; a-testa bassa ero ben riparato, alzando un poco gli occhi arrivavo· a veder tutto attorno a me. Gli uomini alternavano allo scavo lunghi riposi acciambellandosi nella buca già ricavata, e allora parevano morti. Le vedette spa– ravano di tanto in tanto giù nel bosco, sopra ombre o uomini veri. Pigre cannonate rigavano il cielo. Un grande languore mi prese; era certo fame, ma non ne sentivo gli stimoli; e la voluttà di quel perder coscienza d'ogni membro, d'ogni pensiero, era così forte che ne tremavo. Uscii a poco a poco dal tempo e dalla chiusa architet– tura del mio corpo. Fui di nuovo il ragazzo selvatico che arrivato sulla cima delle montagne vi stava a soleggiare fino al tramonto. Biblioteca Gino Bianco
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