Pègaso - anno II - n. 10 - ottobre 1930
466 G. Stupar·ich sieme. Io colsi l'occasione per descriverle, a mia volta, alcuni tipi di preti e di 001ntadini che avevo visto in treno quella mattina e da questi passai al vecchio e alla mia indignazione per le sue bestem– mie. E venni così a parlarle di ciò che mi stava a cuore. Ma lllOlll scorsi sul suo viso alcullla traccia d'illlteresse. Come avevo osservato a tavola la guerra non la toccava. Non c'era in lei né la curiosità né l'ent~siasmo e 1nemme1no la paura che .avev-0visto dipingersi sul viso d?altre dorune, a _parlar loro <lella guerra. Sentivo p,roprio che, per quanto m'accalorassi, ciò che le dicevo nolll svegliava 1I1ullané alla sua fantasia né al suo cuore. Persino quando, esasperato dalla sua insensibilità, le dissi per commuoverla che sarei p-0tuto morire ilil guerra, mi guardò come se 1nonmi comproodesse e, quasi per di– stogliermi da quel pensiero, m'indicò con tenerezza due bambi1ni che in quel momento passavano per un sentierino lOIIltano. Il sen· tierino s'intravedeva appena tra i campi; oltre la siepe due pice-0le figure vivaci di oolore e di ritmo si muovevamo, forse tenendosi per mano: U1I1 maschietto e u1nabambina. Sì, quello spetta-colo la com– moveva assai più di tutta la passione guerresca ch'io cercavo di co– municarle. Allora, con una punta di malignità, le domandai che cosa pensasse della guerra il suo Beppino. Mi rispose con calma ch'era debole e malato e che norn ve lo potevalllo mandare. Guardai l'orologio. Avevo pensa.to di partire co111 l'ultimo treno della sera., per restare il più possibile 001nlei; ma in quel momento mi ricord'ai che ce n'era uno molto prima. Le dissi che dovevo par– tire tra mezz'ora. Le ,dispiaoque, mi pregò che ·partissi più tardi; ebbe una momentanea luce di spavento 111egli occhi. Poi mi parlò con u1naccento accorato di rimprovero nella voce. Capiva ch'io nolll potevo prender.più parte alla sua vita, ma, sinceramente, ella s'era tanto ripromesso da quella mia visita; le era parso che, come urna volta, anche allora io l'a,vrei guidata; si trovava cosi male fra gli uomi111i; i!Il società, nessuno voleva riceverla. e persino molti degli amici la disprezzavamo; c'era la sua relazione con Beppilllo, di cui sembrava ch'io 1110nmi volessi curare, poiché non le avevo dato 111essun co1nsiglio. Pensassi infine che cosa significa-va per ·lei esser madre, avere urna creatura, poter fare per questa creatura (come desiderava che fosse u1nabambillla !) tutto quello che aveva sognato per sé ma che per sé nOIIl era stata· capace d'effettuare. Le sue parole, l'accoramento con cui le pronurnciò mi rifocero umile e m'alleggerirono il cuore. In fondo ella aveva raiione; perché dovevamo esser mutate le parti della nostra amicizia? La mia 1n-0111 era stata sempre quella di darle dei consigli, di correggere e d'illl– tegrare le sue idee? Il colpevole ~ro io se l'avevo illlg3!Jl,natadamdole a credere d'essere un uomo superiore. Ora bisognava scontare. An– che s~ mi sent~vo più p_icco~o e più inoerto di lei, bisognoso di com– prens10rne e d affetto, 11 m10 dovere era di dare, n0111 di chiedere. Biblioteca Gi o Bianco
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