Pègaso - anno II - n. 9 - settembre 1930

362 T. FIORE, La poesia di Virgilio pio, l'egloga seconda, la meno apprezzata da tutti i critici, è definita dal Fiore, sulle orme del Cartault, una parenesi ordinata e ragio– nante. La definizione è speciosa, e nient'altro. Il critico stesso aggiunge curiosamente : « Di virgìliano non ha che un vago senso di grazia, d'in– genuità e di delicatezza». E questo sembra poco? Ma proprio questo il critico avrebbe dovuto approfondire. Il poeta canta proprio nell'Egloga seconda: « Ora anche le bestie cercano il fresco e l'ombra, ora anche i verdi ramarri si nascondono in mezzo ai pruni; e Testili ai mietitori spossati dall'arsura cocente pesta l'aglio e il serpillo, erbe odorose; ma del mio canto risuonano, mentre seguo.le sue orme sotto il sole ardente, gli arbusti, insieme con lo strillare delle cicale». Qui il meriggio estivo è veduto dal d~ dentro, non dal di fuori, è diventato per il poeta uno stato d'animo: egli ha sentito con intensità e profondità quell'infocato si– lenzio, e poi ne ha sentito il contrasto con l'amore, forza inquieta più ardente della vampa del sole, che vince anche l'inerzia del grande silen– zio meridiano. Alla-fine dell'egloga Coridone dice: « GUarda, i giovenchi riportano gli aratri appesi al giogo, e il sole sparendo raddoppia le om- · bre; tuttavia io ardo d'amore; quale misura potrebbe trovar mai l'amore ? ». Anche qui uno spettacolo della nàtura, sentito intimamente, rappresentato sobriamente, un tramonto veduto con infinita malinconia, è messo a contrasto con una passione dell'anima: si spegne l'ardòre del sole, ma non si spegne l'ardore d'amore. Il poeta par che si ~ara– vigli di questo, e non ne sfa contento, e ne soffra. Così l'amore di Co– ridone non è artificioso e convenzionale ·quanto pare ai critici, ma ha tratti di semplice e profonda umanità, cioè di poesia semplice e pro– fonda. Qualche volta si desidererebbe che il Fiore fosse più .filologo. Avreb– be evitato qualche errore, qualche osservazione estetica fuor di posto. Non è vero !)he la filologia nuoccia poi proprio sempre alla critica este– tica; qualc_hevolta, pare impossibile, le giova. Per esempio, non è affatto vero che Enea, quando gli appare Mercurio per ordinargli di partire, « nella furia di strapparsi dal sonno, non ha modo nemmeno di capire esattamente chi sia colui che è venuto», soltanto perché gli dice quisqu'is es. Quisquis es è una formula tradizionale; un elio è sempre sconosciuto, tanto più che un demone malvagio poteva assumere l'aspetto di Mer– curio sénza essere Mercurio. La spiegazione del Fiore non regge. E così, quando Enea ringrazia Didone e le dice : « Gli dèi ti ricompensino si qua pios ·respectant nitmina, si quid usquam iustitia est et niens sibi conscia reèti, non ha affatto « paura che non ci sia giustizia al mondo>>~come. crede stranamente il Fiore, che fa così di Enea un precursore di Renzo Tramaglino; si qua, si quid sono due modi caratteristici del latino per affermare qualche cosa .... senza la minima ombra cli dubbio. Enea, in– somma, dice proprio il contrario di quello che gli fa dire il Fiore. E mi fa maraviglia che il critico abbia due predecessori francesi: il Tissot e il Delìlle ! _ Infine, il libro potrebbe essere scritto meglio. Non che sia scritto male : dov' è pensato bene, naturalmente è scritto anche bene .. Ma di~ spiacciono qualche sciatteria e -qualche scorrettezza. L'autore scrive, per esempio,« debosciato», oppure (del suicidio di Didone) « l'estremo limite BibliotecaGino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy