Pègaso - anno II - n. 5 - maggio 1930
614 G. Pasqiiali annoverano archeologi di prim'ordine, almeno un linguista eccellente, e ormai anche filologi buoni, sussultano, se si nega che gli antichi Greci pronunciàssero, come loro, i l'eta; e non si scompongono neppure quando si squinterna loro dinanzi un frammento di Oratino, che riproduce il be– lato delle pecore, e si fa notare come questo già nel V secolo a. O. a,vrà sonato piuttosto bee beè che vi vi. O aveva anche Oratino, come ogni straniero secondo l'uno, come almeno i grammatici latini secondo l'altro mio contraddittore, gli orecchi foderati di prosciutto ? era una specie ùi daltonista uditivo ? La pretesa dei Greci vale quanto quella dei mo– derni seguitatori del latino; ma noi ridiamo in tal caso dei Greci, e li chiamiamo Graeouli) cioè Bizantini. Come dovremmo chiamare gl'Ita– liani o i Francesi che fan come loro ? I taluli ? Romalli ? (per norma degli articolisti, che non debbano supporre un errore di stampa, Hispanulus diventa Hispallus) .. Dei Francesi non m'importa; ma noi vogliamo essere Romani e Italiani senza diminutivo, e noi non vogliamo, soprattutto, identificare la dignità della nostra nazione con l'arcaicità nella pronun– cia del latino. Un giornalista più intelligente, quando usci quel mio arti– colo, lodò di esso questo periodo (p. 734) : « Poiché ragione principale del mutamento linguistico è l'attività spirituale dei parlanti, un popolo che parlasse ancora come venti secoli fa, darebbe segno di pigrizia, di stasi intellettuale vergognosa». I miei contraddittori non devono aver riflettuto a queste parole : essi, del resto, non sanno che osservazioni re– centi. mostrano come in certi villaggi si noti una differenza fonetica già tra vecchi e giovani. Ed essi non considerano che la fedeltà alla tradi– zione, se dev'esse_re conseguente, porterebbe a rinnegare la propria lin– ·gua presente, ad adattare alla meglio ai bisogni dell'oggi l'idioma del tempo d'Augusto. Così fanno ancora i Greci, e così hanno tentato di fare certi pedanti del Cinquecento; ma il « buon senso » italiano non si è lasciato traviare dai pedanti (in questo consiste veramente l'ufficio del buon senso, nel decidere un problema pratico). L'Italia ha aivuto un Dante, la Grecia medievale e moderna no : ·un Bizantino non avrebbe mai potuto scrivere un De vulgari eloquent~a greco: per « fedeltà alla tradizione», s'intende, per quella stessa fedeltà per la quale gli studenti ateniesi fecero anni sono alle fucilate, perché la Bibbia non fosse tra– dotta nell'indegno linguaggio dei volghi.· Una discussione di questo genere può non dispiacere, può anche esilarare; dispiacciono certi particolari, e dispiace soprattutto il tonò. Si biasima questa rivista di aver accettato un articolo sulla pronuncia, antica del latino senz'avere neppure « la scusa di essere tecnica». Chi leggesse queste parole e queste soltanto, riceverebbe l'impressione, che so io ? della descrizione di un singolare caso di ermafroditismo o di un vizio finora ignoto, scivolata, per inavvertenza del direttore, da unftl rivista speciale di studi sessuali, che si rivolge a un pubblico di me– dici, in questo Pègaso) dove essa offende il pudore di vergini e di ca– ste spose. E si tratta invece dell'argomento più innocente e più .teore– tico del mondo . .Si confonde il problema storico, della pronuncia degli antichi Romani, con il problema pratico, dell'opportunità di certe appli– cazioni scolastiche, mentre pure io li avevo tenuti ben distinti. E mì si accusa (ahimé, anche in nome del buon senso) non tanto di errore BibliotecaGino Bianc_o
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