Pègaso - anno II - n. 4 - aprile 1930

L'arte di Piero Gadda 483 stere al graduale crescere morale del protagonista; toccato dal dolore, divenuto cosi presto un ragazzo cui il destino affida un c6mpito serio, bisognava che il suo biografo avviasse Giò in un tono nel quale questi sentimenti si vedessero operare com!l in un gioco vivo. Solo attraverso questa via si sarebbe. potuto conferire al personaggio quell'ideale di– stacco, e dare al racconto quell'autonomia che reputiamo indispensabile in un'opera narrativa. Ma proprio a questo punto invece la vita intima di Giò si fa incerta; lo scrittore, a mascherar questo difetto, tenta di deviar l'attenzione del lettore verso l'esterno, come accade appunto nei due capitoli della « barcata» e· della «tregua». I quali non sono sol– tanto deboli perché la tempesta è guardata ne' suoi effetti esteriori, de– scrittivi, direi dipinti; ma soprattutto, ci sembra, perché è mancata al narratore la capacità d'intuire dall'intimo il carattere di Giò; mentre qui soprattutto occorreva che il racconto assumesse quel battito, quella vibrazione umana a cui era stato avviato felicemente. La tempesta e lo sbarco di ventura hanno quindi soltanto un sapore letterario, un tono di gita un po' avventurosa, quasi di casalinga avventura. Difetto dunque d'intuizione psicologica, e insieme prevalenza dello stilismo sulla realtà della materia; comunque, effetto di soprastrutture formali dovute al– l'incompleto superamento espressivo delle forme iniziali del Gadda, e segno evidente a un tempo di scarsa umanità. Dove il romanzo riprende i1 suo slancio, sebbene, com'è giusto, contenuto armonicamente in limiti definiti, è dalla fuga del ragazzo fino all'incontro con la donna, dopo la giornata a bordo. Queste pagine, come qu,elle già indicate, sono le pagine migliori; non v'è nulla di sforzato, e la loro stessa linearità, e l'uso di colori .chiari, campiti in una lucentezza vibrante e raccolta, riescono a fermare la limitata umanità delle figure, del capitano, dei marinai e di Giò, in un tutto ben fuso e riuscito. È probabile che il Gadda scrivendo Mozzo abbia tenuto presente i kiplinghiani Capitani coraggiosi; e difatti in una certa vena umoresca che percorre a tratti il romanzo (si legga il capitolo del « Patto marino ,, e la giornata a bordo) c'è più d'un sentore di quelle pagine. Vi manca naturalmente quell'alone fantastico che invece avvolge in un'aura cosi naturale e avventurosa il ragazzo dei Capitani caduto in mare; eppure, è quest'aura che avrebbe dato a Giò l'aureola di piccolo eroe, che invano cerca d'assumere come capo della «masnada» e come nocchiero della barca che trasporta sua madre da Venarola al paese natio. Tuttavia, come è stato osservato, Mozzo oltre a essere una risolu– zione legittima delle qualità narrative del Gadda è u.n punto quieto ,Ji alcune esperienze letterarie e stilistiche fatte in questi anni dai nostri giovani scrittori. Gli estri della fantasia in questo libro non si sbrigliano, anche se appaiono talmente raffrenati da far pensare a un manco ùi vigore; né vi compaiono poi arbitrii psicologici, avventure nel subco– sciente. Racconto, dunque, quieto, sereno, tendente a un'interpretazione della realtà i cui termini oggettivi stanno definiti e certi dinanzi al– l'attenzione dello scrittore. E questo forse il pregio più solido di Mozzo, come è il lato più positivo dello stile del Gadda. G. TI'ITA ROSA. BibliotecaGino Bianco

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