Pègaso - anno II - n. 3 - marzo 1930
376 C. ALVARO, L'amata alla finestra creandovi maschere, trovate e stramberie. I re parlano preziosamente, passeggiando nelle cucine: n'esce un'arte archeologica e barbarica, anti– quaria e avvenirista realista e mitologica, raffinata e contadinesca, togata e sguaiata : te;mini opposti solo quando sono astratti e morti. Non c'è dubbio che l'Alvaro vada anch'esso verso l'arte del « puro discorso», della maschera, della fiaba. Ecco perché, fra lo sterile secen– tismo di tant'altri, i1 giudizio che si dà su di lui e sul suo avvenire dev'essere positivo. L'arte secentesca fallisce quando dà stramberie astratte, come in quasi tutto il Marino, o realismo astratto, come nelle rappresentazioni « di genere» di cui abbonda il Seicento. Riesce, quando la fantasia e il realismo, rivelatisi eguali, vanno francamente verso la fiaba, com'è nel Basile. L'Alvaro, in alcune di queste ultime sue novelle, ci rivela quanto siano notevoli le sue possibilità di fiabista. Ci darà un altro Cunto de li ounti, se non si sciupa. Gumo P1ovIDNE. I ARTURO ,STANGHElLLINI, L'indovino del tempo ohe trova. - Treves, Mi– lano, 1929. L. 15. « Un buon sehso che, a volta a volta, si serve dell'ironia e della gentilezza e le tramuta in vigilanza e in abbandono>>: l'indovino non poteva definirsi meglio di cosi. ,Se il buon senso propende dalla parte dell'ironia, c'è anche da aspettarsi che tutto si risolva in uno spiritoso per finire; se dalla parte della gentilezza, tutto potrebbe anche volgere decisamente al patetico. Questione di maggiore o minor vigilanza. L'ab– bandono l'hai quando la pagina ci sta solo per l'arguzia finale; o quando l'autore, rifatto improvvisamente serio, è tutto nei suoi ricordi di guerra. È questo, della guerra, un motivo dominante, che contribuisce a dia,re una certa unità al libro. Il quale si svolge anzi fra questi due termini: la partenza dell'autore per il fronte, e il suo ritorno, tanti anni dopo, sul Carso, a constatarvi con tristezza che della guerra non vi si vedrebbe, oggi, più niente, se non fosse la presenza del cimitero di Redipuglia, in verità rivelantesi anch'esso, di lontano, non come un cimitero, ma cOJne un vigneto d'autunno, quando i pampini sono ca– duti e i tralci delle viti hanno un caldo color di ruggine. Presentandosi e ripresentandosi, il tema svaria in quello più universale e doloroso della morte, al cui paragone l'indovino ~nsiste anche troppo a trar l'oro– scopo sul tempo che trova. Alla fine se ne accorge egli medesimo. E la conclusione particolare dell'ultimo capitolo, a proposito di quel muta– mento del Carso, potrebbe offrirsi, con un significato più generale, a conclusione di tutto il libro : « Anche i morti si sono allontanati come ombre, per essere soltanto luce, respiro, profumo della nuova vita. Per– ché i vivi non l'hanno ancora saputo fare?». Si pensa a La lanterna di Diogene. E non tanto per certi episodi i quali potrebbero anche offrire l'occasione a .raffronti. Ma per quella fon– damentale tristezza, che cresce e cresce, nell' uno e nell' altro libro, di pagina in pagina, così che ti sembra alla fine di veder brillare la lagrima pur nello scherzo di parola più fatuo, e quasi più non avverti il velo dell'umorismo, fattò com'è trasparente su quel gran nero che gli sta. BibliotecaGino Bianco·
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