Pègaso - anno II - n. 3 - marzo 1930

V. CARD.A.RELLI, Il sole a picco 373 vole! Davvero che si sente il bisogno, a un tratto, che ven,ga Cardarelli e si metta a recitarcele, per vedere se con la viva voce, le pause, il di– scorrere allusivo, si anima e muove quella musica che qui invece è morta. Qual'è dunque la parola (perché conviene sempre cominciar di qui), che più piace a Cardarelli, e che più infatti di lui piace ? « Quella che a contatto di una certa impressione, che può rinnovarsi identica, ab– biamo pensato e ripensato con maggiore insistenza, tenendola, tuttavia silenziosa, in noi, lasciandola riposare e quasi rimettendo ogni volta il tempo di adoperarlà, per un miscuglio d'irresolutezza, di' ottusità, o magari, ch'è lo stesso, di contentezza troppo profonda. Finché un giorno, a forza di durare, si .finisce per credere in lei con una persuasione, per non dir molto, superstiziosa». E ora aprite Favole e Memorie, e andate a cercare l'ultima pagina del capitolo L'infanzia, dove parla del padre. Lì non la parola sola, ma la realtà con essa è stata pensata e ripensata « con maggiore insistenza», è stata tenuta «silenziosa» nell'animo, è stata fatta «riposare», rimettendo ogni volta il tempo di adoperarla, e finalmente, ora che è stata detta e scritta, chi l'ha detta e scritta le può credere con una « persuasione superstiziosa>>. Per questo forse, certo per questo, la musica di Cardarelli va cercata qui, dove realtà e parola, intelligenza, e estro, hanno il caldo dell'anima. Il suo linguaggio è dram– matico. Messe insieme, le sue ultime belle prose nominate, Lago, Elegia etrusca, Insonnia, vivono ciascuna in sé, e per una sorta di fascino che dall'una all'altra corre. Esse s'aiutano ad allontanare dalla prima an– che il ricordo, contagioso, dei soliti paesi facili, che ogni penna appena destra oggi è capace di disegnare; ad aggiungere alla seconda qualcosa che ,è commozion~ sì, ma, pensata, e ingrandita in uno sfondo di memorie auguste; e fanno all'ultima il dono di un immaginar denso, un parlar metaforico, un procedere per allusioni, che nella logica del discorso ac<[ui– stano un color naturale e direi familiare. Tutto quello proprio che non è dato di trovare nelle sue poesie. Dove ci sono sì tocchi d'una pennellata abbagliante, ma solo quelli. Quando pare, come in Alba, che il modo stilistico sia più certo, troppo vicina si sente l'imitazione leopardiana, del Coro dei morti per esempio; e quando l'elegia s'intenerisce in cadenzate modulazioni, come in Amore, anche li il giro strofico leopardiano insistente s'avverte, e accusa non una for– tuita dipendenza, ma un balbettio triste (« Basta ch'io l'abbandoni ec. »). Neppure a farlo apposta di Leopardi Cardarelli par risentire qui l'in– fluenza in due punti pericolosi, estremi: o dove tocca la cima, dell'as– solutezza, un'assolutezza squallida e deserta, oltre la quale la poesia pare rinunciare a, se stessa, o dove il linguaggio sentimentale si fa troppo affettuoso, ed è presso a disfarsi. Meglio allora Settembre a Venezia (« Già di settembre imbrunano A Venezia i crepuscoli precoci E di gra– maglie vestono le pietre»), dove imbrunano, gramaglie hanno una ma– linconica ricchezza. Ma non torna qui un che di compiacente, che nelle 8Ue prose era sparito ? ; e quello studio, che troppo pesa, degli aggettivi, che i lettori complicati amano, ma che gli schietti lettori di poesia pos– sono tutt'al più accettare come una faticosa ricerca e un modo di sag– giare i propri mezzi espressivi, ma che nelle cose mature s'è riassorbita in un'interna scrittura? Badate che c'è nell'ingegno di Oardarelli una ibl1otecaGino Bianco

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