Pègaso - anno II - n. 2 - febbraio 1930
244 P. PANCRAZI, L'Esopo' moderno alla favola esopiana, che possono venire in mente a tutti. P?teva ancora nella favola L'inverno e la Primavera, alla quale appunto 11 Tommaseo riuscì di dare un poetico accento avvertire la divisione delle parti, e una certa progressione strofica, don quel ·fiato odoroso che all'ultimo venta e dove par di sentire la presenza della deità antica che i classici canta~ono, e gli alessandrini più di tutti con forse un'acutezza ignota (un che di alessandrino è nella traduzione del Tommaseo); ma allora, per continuare nel raffronto, bisogna dire anche che nell'Esperienza della lodala proprio l'aver riservata alla ,fine la ragione della sua sag– gezza, ha legato meglio.Ja favola, e le ha dato un moto e una rapidità che nella traduzione del Tommaseo non si trovano. Ma queste, badate, sono trecentosettantacinque favole, più di quante cioè ne siano state mai raccolte; e hanno tutte altro senso da quello che traspira da quell'unica per cui al Tommaseo s'è dato il vanto. Sono discorsi di animali, quasi sempre, moventi da un'umana scontentezza e da un umano sorriso; e Pancrazi non le ha già raccontate, ci si è immerso, le ha rivissute, ed è scappato fuori lui. in persona a dettar le parole vive, a ravvivar tutto, con quell'incrinatura dì malinconico e dissimulato riso che Esopo aveva, e che Pancrazi ha ben reso col suo linguaggio parlato, diretto e schietto. « Ermete fu una volta incaricato di condurre attraverso il mondo un carro carico di menzogne, di furberie e d'inganni. A ogni paese, Ermete lasciava giù un po' della merce. Giunto nel paese degli Arabi, ecco che il carro si ruppe, e sùbito gli Arabi si dettero a saccheggiare la preziosa mercanzia. Così Ermete risparmiò il rimanente viaggio ». Ricchezza degli Arabi, dice Pancrazi, che è il titolo della favola, e potrebb'essere una riflessione, finita la favola, del lettore. Richiama certo la furbizia ladra degli Arabi; ma per un momento ci fa correre con la fantasia all'oriente, e ci sveglia ricordi d'altra ricchezza: « L'odorifero e lucido ori:ente ».... Ancora. « Per festeggiare un caro amico, un tale allestì un bel pranzo. Il cane di casa pensò allora di invitare anche lui u'n altro cane: - Vieni, e vedrai. - Corse quello, e dinanzi a tanta grazia di Dio, non si teneva: - Che bazza! che pacchia! Per un pezzo, addio fame! - Sotto la tavola il cane sospirava così, e dalla gran gioia dimenava la coda. Ma il cuoco che giusto vedeva quella coda correr qua e là, saltò su, afferrò il cane per le zampe, e lo buttò fuor di finestra. C'erano già lì sotto tutti i cani ad aspettare: - Un bel pranzo, eh, amico? - Figu– ratevi! Bevi ·e ribevi, la testa mi gira; e nemmeno capisco bene da che parte io sia uscito!». E Pancrazi: Il cane brillo. Di che? Di quel che · avete visto. Ai poveri diavoli non è dato ubbriacarsi d'altro che di spe– ranza, o di disperazione: e contentarsi, e sorridere. Vedremo questa favola, che è una cosa tutta di fantasia, •~orita con tanta libertà di scrittura, presto nelle antologie. Noi l'abbiamo ri~ cordata, per dar un'idea di come Pancrazi, pianamente, sa tradurre il senso e, direi, il sovrasenso di Esopo. Ché questo sovrasenso c'•è e Pan– crazi vi ha sempre guardato. È da credere che i lettori più fi~i trove– ranno in questo lo svago maggiore, i vecchi aiutati dalla malinconia e dal ricordo, i ~anciull~ dal~'ingenua i~mag~nazio:ie. Non c'è che la gio– ventù, la torbida, la mqmeta, la eroica g10ventu che non ami Esopo. BibliotecaGino Bianco
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