Pègaso - anno II - n. 2 - febbraio 1930

P. P .ANCR.Az1, L'Esopo moderno 243 linguaggio, non come quello del Tommaseo, apodittico, indiretto, troppo sapiente, ma vario, libero, parlato, con una sorta di dialogo che nasce all'improvviso, e ora si svolge e muta, ora s'interrompe per riaffac– ciarsi alla battuta ultima, in forma che io chiamerei corale. E c'è il suo perché, un perché lontano, che trova l'origine nell'indole propria di Pancrazi. Pancrazi, quello che ,è più lui e più vale, resterà (mi aiuti, chi sa, a dire quanto) per il modo come, a un punto del suo discorso, senza che nessuno se l'aspetti, è capace di sciogliere il nodo d'un problema, d'una difficoltà che s'è portata per la lunghezza di due colonne di gior– nale, con una definizione, un motto, che ha perfino nel suono una qua– lità di voce più rara. Perché ci sono insomma due Pancrazi: uno affa– bile, in apparenza contentabile e civilissimo, che ascolta e dice «sì)), legge e dice «si», variando appena quel sì, e accompagnandolo con un moto del capo, una sospensione, un alzar d'occhi; e c'è un Pancrazi, quello che non disarma e non cede, che dopo tante concessioni fatte dal– l'altro, interviene brusco, dice una parola, e buona notte. l lettori sono pregati d'ascoltar proprio quell'ultima parola, e si persuaderanno che per risp(:ltto a loro, parlando tante volte di argomenti scottanti, s'è ri– ~ervata questa parte di dir il vero col minimo dei mezzi, pur di dirlo; che se no, le tante concessioni fatte avanti gli peserebbero come un brutto peccato. Se poi aggiungete il gusto che solo è suo, tra quanti oggi parlano di lettere, di ridurre ad argomento di discorso l'opera o il ca– rattere d'uno scrittore, (c'è in questo libro un « Invito all'Esopo», che è veramente· una lieta lettura, biografia e ritratto e spirituale specchio d'un uomo tra i più sfuggenti di quanti inventarono miti), rifuggendo da tutto quello che sa di tecnica o di fredda scienza, o riassorbendolo in quel tono piano e umano ~che è il pregio del suo scriver riflesso, avrete allora anche la ragione del color dello stile e del movimento di queste favole; che già il segreto di qµella voce segreta che abbiamo sentito venir fuori dall'intimo di Pancrazi, s'è visto essere tutt'altro che ar– tificio sottile, e volontà calcolata d'ironia. Eccolo dunque davanti a Esopo. ~Egli certo ha letto le traduzioni degli altri, e avrà fatti ,chi sa quanti tentativi per saggiare il suo gusto, provare e riprovare quando, e in qual forma, la favola meglio rispon– deva al suo genio. Poi s'è deciso. Ha letto il suo greco con i ricordi del liceo, ha guardato la raccolta di Émile Chambry, e ne ha cercate poi altre in altre lingue, e s'è messo per suo conto al lavoro. Fissato il piano,, e piena non la memoria soltanto dello spirito esopiano, ha preso a scrivere con mano libera. Di trecentosettantacinque, quante ne ha tradotte, non si può dire che abbia usato un modo meccanico di tra– durre. Anche dove aveva buon gioco a far puntare la favola sulla bat– tuta finale, ma il lettore se l'aspettava troppo, l'ha taciuta, lasciandone un ricordo nel titolo, in modo che né la conclusione della favola, tolta la morale, e quella parte viva, corresse il rischio di finir troppo presto, né la novità del titolo riuscisse sempre nuova tanto da saziare. E in qillèsto più ha lavorato il si.Io gusto e la sua misura. Due o tre volte forse poteva accorciare e far meno, lenta la tessitura del discorso; ma son correzioni, ora che lui ha dato un tono e una durata sua propria BibliotecaGino Bianco

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