Pègaso - anno I - n. 8 - agosto 1929

228 F. Orispolti chiama deboli, fatti forti per l'umiltà, da una potenza infinita. Lassù le parole tanto umili e tanto grandi del Magnificat acquistano un valore simile a quella che ebbero sulle montagne di Giudea: grido di lodoletta - portata assai più in alto dell'aquila -- che in aere si spazia . prima cantando, e Poi tace. contenta dell'ultima. dolcezza ohe la sa.zia. « Possibile cbe non si ritrovi l'accento d'una poesia che comincia cristiana con la parola di Maria, italiana, con le parole di San Francesco ? « A te farò una confessione. Andai lassù, principalmente per esserne rassi– curato e illuminato: rassicurato sulla fedeltà delle mie parole, quall si siano, al mi– stero della Cr-0cee illuminato sulla pratica che ne deve seguire. Tener la Croce vivjj nell'animo per averla splendida nella mente, chiamar tutto il mondo, natura e sto– ria, con la scienza a farne testimonianza solenne, con l'arte a glorificarla; e ar– ricchiti di tanta gloria vera spogliarsi di quella vana del mondo, facendosi piccini coi piccini, per coltivare in loro, con la naturale e l'umana, la parola divina; ecco, mi pare, il lavoro cristiano moderno.» Ma anche giimto « dal pelago alla riva» lo stesso palese ritegno a volgersi « all'acqua perigliosa >>e a « guatare >> indicava che non si era quietata in lui' la paura · che nel lago del cor gli era durata la notte che passò con tanta pieta. 'l'utto mostrava che era stata notte lunga e tempestosa; la notte dell'Innominato protratta per anni. La stessa serenità di lui, così soave a tutti, aveva un che di mesto; pareva dire noli me tangere, e chi gli penetrava un istante nel cuore, ne aveva l'~mpressione che potesse venir faci.lmente turbata. Anche la cura, e direi l'ansietà di procurare il si– lenzio sopra di sé, di respingere la fama, che tarda e ,scarsa a venirgli, · alcuni amici, non per fargliene il triste dono ma per giustizia e per onore delle lettere italiane, voleano procurargli, erano segno, d'un inquie– tudine non domata, del timore d'una sottile lusinga che lo ripiombasse in quella notti;. Ricordo la lettera, di supplica e quasi di protesta che mi scrisse nel 1897·perché non tenessi un discorso sopra le sue liriche già pubblicamente annunziato, e notate, lontano da lui, a Bologna, donde a Roma non sarebbe giunta nemmeno l'eco. Come dirgli di no ? E con– fermò queste supposizioni sopra il suo stato d'animo verso la fine della vita, quando gli venne lo scrupolo e ,perfino il rimorso d'aver mostrato ingratitudine verso tali amici. L'ultima volta che mi scrisse, a:lludendo alle parecchie circostanze in cui avevo cessato di da,rgli retta e m'ero arrogato il diritto di far la debita menzione di lui in scritti e discorsi, si scusava delle sue contrarie insistenze confessando di non essersi sén– tito libero dalle tentazioni di vanità, di quella vanità nella quale aveva sempre visto la fonte dell'antico traviamento. Questa intensità di vita interiore, così naturale a lui, da non poter egli supporre che il più delle anime non ne abbia altrettanta; questo non poter rendersi ragione che in anime erranti la coscienza. non sia sempre procellosa, ma che durino a lungo e talvolta sempre in quel «sonno>> di cui Dante era « pieno >> nel punto in cui « abbandonò la verace via>>, gli BibliotecaGino Bianco

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