Pègaso - anno I - n. 6 - giugno 1929
Congresso e crisi del folklore unità a, una scienza se non in ~uel senso ch'è una la geografia, quale combinazione e sintesi di studi, condotti con metodi diversissimi, facenti capo a diversissime discipline, i quali hanno in comune solo questo, che si riferiscono alla sfera terrestre; entrando nel merito, che popolo non può significare in quella proposizione se non le classi inferiori della so– cietà, che quel ,vocabolo esprime, quindi, qui un concetto non etnologico né nazionale, ma, sociale, cioè per sua, natura piuttosto vago e mal delimitato. Dove comincia, dove finisce il popolo ? Questione di parole ? Io non mi soglio commuovere, quando mi si dimostra a, fil di logica (ed è assunto facile) che la disciplina della quale fo professione, la filologia classica, è, se non un'accozzaglia, un'accolta di studi vari tenuti insieme solo da una relativa, unità dell'oggetto, l'an– tichità classica. Ma nel caso del folklore sotto il problema dell'unità si annida una diversità di concezione o meglio un'evoluzione storica. Almeno qui sul Continente il folklore si è organizzato quale scienza in età ancora romantica sotto l'influsso di idee che io direi herderiane. Il popolo, popolo in senso sociologico, era pensato come qualcosa di pri– .mitivo e di originario, e, come tale, considerato misterioso e augusto e divinizzato. Da un lato gli si attribuivano capacità prodigiose come quella della creazione collettiva e inconsapevole (inconsapevole ?) di forme artistiche e componimenti poetici. Dall'altro lo si sottraeva stra– namente alla storia, o almeno agli stadi più recenti della storia: tutto quello ch'era uso popolare, doveva essere antichissimo. A noi che nella storia, e nella filologia e i più anche ,nell'animo abbiamo superato il romanticismo, queste concezioni appaiono assurde e anche contradit– torie in sé medesime. Per noi anche il più umile componimento ha necessariamente un unico autore; e poco importa se il nome di questo sia dimenticato, perché anche oggi le plebi, simili in questo agli antichi di ogni classe sociale, non dànno valore alla proprietà letteraria, badano all'opera d'arte e non all'artista. E per noi il popolo - popolCJ'questa volta in senso nazionale ed etnico, non sociologico - non si divide in tanti compartimenti ,stagni dall'alto in basso. I folcloristi romantici, facendo delle loro plebi rurali e montanine tante depositarie di tradi– zioni antichissime, le introducevano quale soggetto nella storia di età remote; ma, negando o limitando influssi recenti dall'alto, ammettevano senz'accorgersene che queste plebi avessero in tempi più recenti perduto ogni contatto con le classi superiori, contro l'esperienza di ogni giorno che insegna come la cultura si diffonda dalla città alla campagna, dal centro alla, periferia, con rapidità sempre maggiore, man mano che le comunicazioni s'infittiscono e divengono più rapide e più agevoli. Nella montagna pistoiese si leggono ancora i Reali di Francia e il Tasso ? È probabile che tra cent'anni, forse tra soli cinquanta (perché il rit~o della vita si è detto si aecelera costantemente) qualche cantore d'osteria pascoleggi come p~coleggiano ora dilettanti cittadini di piccola bor– o-hesia. Io' non escludo che anche certo D'Annunzio si perda un giorno tra le selve di castagni. Guido Mazzoni mostrò proprio in questo con– gresso che sono ora, divenute poesie popolari i componimenti popolareg– gianti di mediocri letterati del RisorgTI?ento. Io sosp~tto forte che po0;<iia popolare. scevra di imitazioni auliche, rn un paese di cultura cosi antica ibliotecaGino Bianco
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