Pègaso - anno I - n. 3 - marzo 1929

34:2 U. l!'racchia profonda malinconia: - Ti credevo capace di 1più alti voli, di più vaste visfoni. - Capisco, - mormorò abbassando p capo il conte Roberto, - tu sei abituato ali' America, dove tutto è immenso, tutto è gran– dioso. Ma da noi, che vuoi farci? naturalmente le cose si riducono tutte alle nostre proporzioni. Noi siamo ipiccoli e ci dòbbiam9 ac– contentare. - La solita piccola, timida, povera Italia, - mormorò come in estasi il maggiore Iupiter. - Ma, se tu hai fede in una grande impresa, - dìsse il conte Roberto, - perché non la comipi senza di me ? Io mi accontenterò di partecipare in minima parte alla tua fortuna, e tu considera queste montagne come se ti apipartenessero di diritto. - La montagna appartiene a chi la sfrutta, - rispose il mag– giore Iupiter, - ma per sfruttarla occorre molto denaro. - Questo appunto mi spaventa, - disse il conte Roberto•: - Pure tu non puoi avere i miei scrupoli. - Non ho i tuoi scrupoli, - soggiunse il maggiore Iupiter con un'ombra di vergogna, - ma purtroppo non ho nemmeno il denaro necessado a quest'impresa. Sono stato ricco qualche volta e spero - di diventarlo nuovamente domani. Ma, perché dovrei nasconderlo a te ? sono ora ad un punto che, se non mi riprendo con energia, se non colgo un'occasione immediata, avrò presto dato fondo allP mie ultime risorse. Per qaesto il viaggio che tu sai è indispensabile e urgente. Debbo pensare alla mia famiglia, e non ipossd aspettare che i tuoi minatori impieghino tre o quattro ò cinque giorni a fare, con la mazza, un foro da mina, quando, dopo mesi di ricerche, avremo finalmente potuto stabilire se e dove qui sia un giacimento di minerale. Non ti nascondo che ieri sera, vedendo come ti accalo– ravi all'idea di queste miniere, avevo ripos~o qualche speranza in te; e non per altro, ma iperché, come ti ho detto, il pensiero di se– pararmi dai miei mi dà molta pena, e non so che cosa farei per non doverli lasciare. Ma non im!Porta. Capisco che tu non hai né il mio assillo, né il mio entusiasmo, né la mia fede in questo genere di imprese, e che ancora una volta, come un ragazzo, mi sono lasciato andare ad un sogno. - Mio caro Stefano, - disse allora il conte Roberto con le la~rime agli occhi, - ti vedo così desolato che mi pento di aver.ti condotto quassù, quasi di viva forza. Ma non volermi male per questo. Vedi, non si tratta di fede, l'entusiasmo non c'entra. An– ch' io da ieri sera ho accarezzato la vaga speranza di rrendere, sfa pure con un ritardo di dieci anni, la mia rivincita su quanti mi hanno perseguitato e deriso. Certo morirei più contento se potessi andarmene 'con le màni pulite, ndn per i· figli, che non meritano BibliotecaGino Bianco·

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