Pègaso - anno I - n. 2 - febbraio 1929
186 R. Bcwchelli - Amore d·i poesia già tntta, e anche la musica, la prima stesura delle sue poesie. Anzi una volta, nell'Inno ai Patriarchi) parte non piccola di poesia restò nella, prosa. Ora, beninteso, il mio argomento no111 vuol riferirsi ai versi mi– racolosi di Giacomo : sarebbe sceIIl[)iaggine. Occorre dire che versi Leopardi fece i più nativi e pieni di canto che si possano leggere ? Con q-uesta avvertenza, superflua, continuo, e mi pare che, nel– l'epoca 111ostrasiamo generalmente al punto in cui i retorici per amor di scuola e di conformità; i decadenti per una sorta di pun– tiglioso amore di singolarità, s'incontrano. L'ermetico Mallarmé pone nella sua ve1·sificazione tecnica un'iIIl[)eccabilità formale simile a quella che infiammava i greci ultimi 111él far, che so ?, gli acrostici più accidentati. Cosi nasce la scuola e la maniera parna,ssiana, ono– revoli e inutili. Far nascere il verso dalla prosa, cavarcelo per entro, vuol dir~ rifarsi umilmente e duramente dal principio. È una fatica, come tutti gli inizi, ed è U111 pericolo. C'è il caso che la sua miglior sortt' Fda soltanto di giovare come esperienza, forse come esperienza ne– gativa, a,d altri e ai venturi. Vuol dire difficoltà, novità e dubbio. Vuol cercare versi nuovi in forme antiche, a rischio di smarrire quel che più spontaneo fa la musica del l()roprio periodo segreto, senza raggiungere u111a forma. E, detto poveramente, vuol dire ri- schiare di far dei ve~si che non suonano e torna111male. · Eppure a questo estremo, di qualità triste e comica, bisogna spingersi, poiché una metrica e una misura nuova non si crea dagli ·scrittori, ma se mai dal popolo nella trasmutazione delle lingue. Con chi questo ignora, e si propone prosodie artificiali o artificiate, nov-atore o retore, parnassirnno o verlibrista, è inutile discutere. Un critico ha qualificato certi miei versi come i più brutti che siano stati scritti dal mille e cento in poi, in lingua italiana. Non è un gran critico, veramente, ma a me piacciono i discorsi decisi ! A parte questo, non voglio discorrere se sian belli o brutti quei versi ; certo dico che la co111oscenz.a del tempo ci insegna esser noi più prossimi di Federico o di Guittone, se non addirittura di Bon– vesin da Riva, che del glorioso e beato Trecento e Cinquecento 1 o dell'Ottocento pure. Muta dunque colla pronunciar la lingua e il modo stesso di ri– cevere la poesia, - la fPOeRia resta nella sua divinità trascendente, - muta colla prosodia la lettura stessa. Noi siamo al punto in cu,i !per fare, e, ahimè, non sarà molto, bisogna molto rischiare. -Rischiar molto per poco, è cosa degna d'esser proposta a uomini ài cuore, e a innamorati, come io mi confesso, della poesia. RICCARDO BACCHELLI. BibliotecaGino Bianco
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