Ombre Bianche - anno II - n. 4 - aprile 1980

74Emanuela Cavedon Nel rileggere queste pagine io sono stata colpita dal tipo di problemi su cui sia- mo state invitate a riflettere all'età di 14 anni: il problema della vita, del male, del dolore, della morte. (Oggi noi con i nostri adolescenti, al momento di trattare il tema ''orientamento'', ci limitiamo ad illustrare la gamma degli Istituti superiori cui potranno iscriversi dopo la 3a media!) Ovviamente non mi interessano più le risposte che allora mi sono state suggeri- te, ma continuano ad interessarmi quei problemi e mi accorgo che - nell 'incapaci- tà di trovare risposte accettabili per quelle domande - noi abbiamo smesso di por- cele: segno evidente della nostra difficoltà a dar vita ad una forma organica di ci- viltà. Per tutte le civiltà del passato, e soprattutto per le più semplici, la vita e la morte erano i momenti centrali dell'esistenza, non solo per l'individuo ma per l'intero gruppo, eventi seguiti con lo sguardo dalla comunità; noi oggi intorno ad essi abbiamo costruito un impenetrabile paravento. Oggi - come dice una bella canzone di Claudio Lolli: "si nasce e si muore in un grande ospedale / grattacelo moderno struttura di tipo aziendale / dove la morte è un fatto statistico del tutto normale'' Qualcuno potrebbe anche affermare che per l'uomo post-istorico quei proble- mi non hanno più senso. Tuttavia essi continuano a seguirci come inquietanti compagni della nostra esistenza perchè - nonostante il progresso: questa meravi- glia! - non abbiamo ancora eliminato il dolore, non abbiamo ancora eliminato il male, non abbiamo ancora eliminato la morte. Continuiamo a subirli - come ieri fecero i nostri padri -, ma a differenza di loro, non sappiamo più perchè, nè per quale scopo. Quanto alla vita: Ma è vita questa? È una vita senza forma, senza disegno, senza progetto: da questo magma senza volto riusciremo a far scaturire un'immagine coerente? una forma tanto dilatabi- le da lasciar spazio a tutte le diversità, e tanto armoniosa da permettere che in es- sa ogni diversità trovi una sua ragione d'essere? Ma per far questo, che non sia forse necessario prima definire la morte? Dice- va Sen~ca: "qualunque cosa fai, pensa alla morte"; il che (secondo quanto mi è stato insegnato) non significa: ''trascorri la tua vita paralizzato nella paura della morte'', ma ''il senso di ciò che fai dipende dal significato che tu dai alla morte''. Se la morte è "fine", vivere è una disperata assurdità, bene e male non esistono, entrambi si annullano in "quella notte dell'indistinto" in cui tutte le azioni sono inutili. Se invece - come è stato detto - la morte è l'anello che congiunge la vita con la vita, allora è indispensabile che anche noi inventiamo una nostra immagi- ne del post-mortem, dalla quale derivare significati e mete per, la nostra esistenza. Fino a quel giorno non potremo parlare di una "nuova civiltà": forse ciò che ci manca è un colpo di fantasia o un colpo d'amore. Nel frattempo continueremo a vivere senza chiederci come mai, avanzeremo senza progetti, senza direzioni (seguendo - come gi omini di Folon - frecce che conducono da nessuna parte), aspettando che il tempo scorra, che la morte ci incontri, senza sapere perchè, sen- · za sapere dove ci porti. BibliotecaGino Bianco

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