Ombre Bianche - anno II - n. 4 - aprile 1980
12 Ci sembra che non possa esistere una rappresentanza generale di interessi, per- chè non esiste per definizione l'interesse generale (non bisogna confondere l'inte- resse generale con quello della maggioranza ... ) e perciò rappresentare la generali- tà degli interessi significherebbe una forma di rappresentanza totalizzante che non è nemmeno il caso di criticare. Ma esistono forse altre strade tra la tutela, le- gittima ma angusta, dell'interesse del lavoratore in senso stretto e la rappresen- tanza globale delle persone, a cui forse solo una religione può legittimamente aspirare, non certo un sindacato. Si può pensare ad una molteplicità di livelli di interessi rappresentabili: non solo la tuta in fabbrica, ma anche l'inquilino, il contribuente, l'utente di determinati servizi pubblici, ecc. Anche su questo terre- no il sindacato ha esperienze significative e contraddittorie: non pensiamo tanto al SICET, in bilico tra ufficio burocratico e organizzazione di massa, ma a dieci anni di lotte sulle tariffe pubbliche, in un alternarsi continuo di trattative di verti- ce e di azioni di autotutela (con l'esempio limitato ma significativo dell'autoridu- zione dell'inverno 1974-75). Il discorso non è semplice e lascia aperti ampi margi- ni di incertezza: con quale ragionamento il sindacato decide, ad esempio, di pre- sentare proprie liste di genitori alle elezioni degli organi collegiali nella scuola? Forse si può pensare anche ad una rappresentanza che ha origine a partire dall'incrocio tra interessi e persone, cioè dalla o dalle culture. Come spiegare al- trimenti la persistenza nel nostro Paese di aree di parziale monopolio sindacale, per cui nelle zone con tradizione culturale cattolica vi è una relativa prevalenza della Cisl, mentre nelle zone con una tradizionale presenza della cultura socialco- munista prevale la Cgil? È allora ipotizzabile un sindacato che rappresenta le cul- ture nei confronti di chi le nega? e che cosa significa questo oggi? 3. Sirnno subalterni ad una concezione "diffusionista" ed etnocentrica della cul- tura e della_politica, per la quale la politica è qualche cosa di organico, omologa- bile dal centro alla periferia; i contenuti, i rapporti, gli equilibri che si instaurano al centro sono i più importanti, quelli destinati ad imporsi in periferia, mentre quello che accade in periferia è importante solo in quanto influenza gli equilibri che si realizzano al centro o comunque costituisce un segnale per l'intero sistema: un modello, in sintesi, per il quale il linguaggio della politica è quello che si parla a Roma. A questo corrisponde, da un punto di vista culturale, la convinzione che "la generalizzazione del mercato e dell'industrializzazione porterebbero, per la loro superiorità storica, ad una dissoluzione progressiva delle realtà locali: cultu- ra, economia, politica divengono largamente unitarie e comuni, le interrelazioni si spersonalizzano e la tradizione localista si offusca e scompare, o sopravvive co- me residuo". Il "residuo" è un "frammento" e in quanto tale condannabile, poichè prodotto della cultura radicale e della propaganda americana, come ci ha insegnato un ex-operaista ad un recente convegno. In realtà il "localismo" non è un limite angusto, ma la condizione per avere a -'-t~•.,,-,.di e, . · a e spaziale e temporale verificabile e controllabile dalla
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