l'ordine civile - anno I - n. 1 - 25 giugno 1959
RASSEGNE E DIBATTITI Pro e contro il latino Una polemica apparentemente insolita, ha oc– cupato la stampa italiana: la polemica sulla utilità dell'insegnamento ,del latino nella scuola italiana. E l'importanza della posta, ben a ra– gione, non è. stata in genere sottovalutata, an– che se l'occasionale motivo della discussione è stato un provvedimento del Ministero della pubblica istruzione che decretava la soppres– sione della versione dall'italiano in latino negli esami di licenza media. Accaiito ed ol– tre i pareri, diciamo tecnici, intorno a tale questione particolare, H dibattito si è subi– to concentrato su ciò che veramente occorre prendere in esame, la legittimità dell'egemo– nia del latino nella nostra scuola. I pareri so• no molto discordi ma si raccolgono, anche in questo caso, a -determinare, .contraddittoria; mente, nna destra e una sinistra, rivolta ten– denzialmente l'.una a sostenere « sic -et simpli– citer » la permanenza dell'attuale ordinamen– to scolastico, ,di derivazione ~entiliana, l'altra tendenzialmente rivolta a sopprimere tale or– dinamento. In nome di che cosa? In definiti– va si sono invocati criteri di civiltà, di assen• so o di negazione alla civiltà moderna. Ci pare ovvio affermare che la scuola non può essere un organismo avulso dalla cultura e in particolare dallo Stato in cui opera. Ed è quindi sempre in rapporto al tipo di Stato e di cultura, di civiltà che si desidera affermare, che una riforma scolastica viene proposta. Quando si propone la soppressione del latino dalla scuola, o la sua riduzione a fatto margi– nale, si invocano in ultima analisi ( si veda, esemplarmente, la posizione di Buzzati-Traver– so) le ragioni di uno Stato moderno, in cui scienza e tecnica siano egemoni e tali da costi– tuire il patrimonio degli uomini singoli e del– la società civile, da portare questa e quel-li a un livello di benessere materiale e più in là, e più profondamente, in possesso degli stru• menti culturali dell'epoca moderna. Solo per questa via l'Italia, come nazione, ha la possi– bilità di non decadere a provincia, a zona de– pressa, ma di ritrovare un suo posto tra le na• zioni e un ruolo nella vita mondiale. Ciò sot• tintende, coscientemente o meno, l'accettazione della cultura moderna come tale, ma più preci. ·samente nella sua componente positivistica, e la convinzione, che ne deriva, che il « progres• so » scientifico-tecnico rappresenti senz'altro il progresso dell'umanità. All'altro limite, quan– 'do si propone il mantenimento del latino in una posizione egemonica nella scuola, si fa ri– ·corso alle ragioni di grandezza della civiltà classica {si veda la posizione ,di Paratore), ,gran– dezza pen:nanente e insostituibile. Nel senso che le successive civiltà, fino alla presente, non rappresentano che innesti successivi sulla fon– dazione greco-romana. Quando non nel sen– so di rit~nere spuria la « civiltà delle macchi– ne », che come tale va sostituita o vaccinata con le idealità classiche. La questione non è semplice, le posizioni in– termedie numerose, ma tutte in definitiva sin– cretisticamente in rapporto con .le due ,posizioni .qui velocemente riassunte. E molte anche, cre– diamo, le interferenze di natura particolare e minore, didattica. Quello che vorremmo affer– mare è che i,l problema in sè non è di natura solo didattica, ma propriamente culturale e ci– vile. Ed è bene che si ponga e riproponga al• l'attenzione. Ma diremo subito che ogni pro• posta risulta confusa ed equivoca, quando non si ammettano alcune constatazioni. Innanzitutto che l'insegnamento del latino non è una pa– nacea, non è tale da dare all'uomo tutti gli strumenti o lo strumento per la sua condotta civile, vogliamo dire, meg-lio, che non è l'uni– co strumento. E poi che non si possono negare le necessità pratiche ,del mondo in cui viviamo, con il conseguente inserimento nei programmi scolastici di un maggior numero di tempo de– dicato a.Ile materie ,scientifiche o alle lingue moderne. Detto questo, ci -pare che il problema possa porsi con proprietà in questi .termini, onde una soluzione venga individuata: il latino e l'inse– gnamento del latino, come tramite della civil– tà classi~a. Tale civiltà non è più la nostra ( co– me di nessun altro popolo), perchè il Cristiane. simo, pur accettandone alcune istanze fonda– mentali, vi ha impresso i suoi segni distintivi, così che la civiltà moderna può dirsi figliazio– ne del Medioevo e ,del Cristianesimo, ,e non di– rettamente di Roma. Ma la civiltà classica, per la mediazione cristiana, rimane, storicamente, . componente essenziale .del nostro patrimonio culturale: l'humanitas che ha espresso (" homo sum humani nihil a me alienum puto n, Te– renzio), il senso dell'universale, della -trascen– denza dal particolare e dall'individuo verso la res pubblica e i-1 bonwm comune, sono conqui– ste che non si possono abbandonare. Solo per questo l'insegnamento del latino può e, dire• mo, ,deve essere mantenuto ( e non per argo• mentazioni discutibili, come la capacità didat– tica del latino di essere il solo efficace stru– mento per formare l'intelligenza e il carattere dello scolaro). La specializzazione, oggi ,certamente neces• saria, la sempre maggiore richiesta, ovviamen– te giustificabile, di personale tecnico-scientifico non -può non essere accolta: ma da sola essa significa culturalmente la richiesta di una ci– viltà ,rivolta al puro benessere materiale, e al particolarismo materialista. Va operata dunque una distinzione tra obiettivi pratici e responsa– bilità· civili, tra formazione professionale tecni. ca e .formazione umana, civile e morale. Uno deg,li strumenti di quest'ultima è necessariamen– te l'insegnamento del latino; per il senso del– l'universale .di cui è portatore, per il signifi– cato non utilitaristico che lo distingue, per la potenziale capacità a fornire un criterio supe– rante le specializzazioni e dar loro pertanto una convalida. Non si tratta dunque di un lus– so, intellettuale, ma di una necessità forma– tiva. Tutto ciò non significa che il latino debba mantenere una ,posizione semplicislticamente egemone, come ora si verifica, ma che abbia ùn suo posto preciso e inconfondibile nell'ordì. namento scolastico. Siamo anche convinti che debba modificarsi la formazione universitaria del ·professore, e la sua stessa fisionomia d'inse– gnante: ma da questo siamo ora troppo lon– tani. Certo, provvedimenti come quello re– centemente adottato, risultano in questo qua– dro assai discutibili: a noi sembra, per esem– pio, che la prova dall'italiano in latino sia una modalità didattica necessaria, o molto uti– le. Non è qui tuttavia che desideriamo insiste– re poichè ci sembra che il vero problema sia altrove. c. L. Krusciov e i "verniciatori,, '" Quando gli uomini sono pm prosperi, allora diventano anche più democratici ». Questa propos1z1one non è stata pronun– ciata ,da un sostenitore dei .principi del- 1',«American way of life n, ma da Nikita Kru– sciov. Il linguaggio del capo del governo sovietico non finirà mai di stupirci. Abituati al frasario chiuso di Stalin, al vocabolario li– mitato e rituale, il linguaggio libero e im– provvisato del suo successore, non ha ancora fi. nito di s~upirci. Le bonhomme Krusciov è cer– to uno stile ed inevitabilmente anche uno stru-· mento di potere: ma lo .preferiamo egual– mente a_llo stile passato. La Russia di Stalin non aveva meno bisogno di pace della Russia di Krusciov: pure ci regalò la guerra in Gre– cia, in Cina, in Corea ed in Indocina. La con– trapposizione tra una politica d'avventura di Krusciov e una d'av,ventura di Stalin è dunque del tutto fittizia: semmai l'avven– tura di Krusciov è stato il XX congresso che ha consentito l'esperienza polacca e nuovi mar– gini di libertà o almeno ,di minor -pressione sociale, anche se l 'elemen lo tirannico incluso non solo nello stalinism,;i ma nello stesso le– ninismo ha fatto sentire la sua ineliminabilità con la tragica repressione ungherese. La sua dottrina sugli effetti politici della prosperity sulla democrazia può essere tradotta nella dot• trina classica della « marcia verso il comuni– smo »: ma in questa stessa dottrina ha assun– to nella esposizione politica di Krusciov un significato molto diverso da quello di Stalin e anzi addirittura opposto. La politica di Kru– sciov è esattamente il contrario di quella dise– gnata da Stalin nel suo ultimo opuscolo teorico e adottata dal XIX congresso del iP:CUS. Nel primo caso la marcia verso il comunismo è vi– sta eome integrale statalizzazione della vita civile: ·graduale abolizione dell'economia kol– kosiana a vanta·ggio dell'agricoltura di Stato: graduale abolizione delÌa compra e vendita dei prodotti, del commercio, e persino del -danaro: questa l'utopia violenta dell'ultimo Stalin. ,La marcia verso il c-;;munismo è vista da Krusciov invee.e come graduale deperimento deUo Stato: per questo una crescente autono– mia dei kolkhozi e delle altre istituzioni so• ciali, una diversa concezione della legalità so– cialista, cioè un diverso regime -penale e di ,po– lizia, un maggior decentramento amministra– tivo fanno parte ,del sistema di Krusciov, a cui non si può non riconoscere organicità di dise– gno politico. •La crisi ungherese rappresentò il punto di massimo pericolo per il regime kruscioviano che rimane sempre un regime ,di successione, un regime cioè che si muove sulle linee e sulle strut. ture dell'edificio staliniano; un regime quindi che non poteva, allora sopportare una seconda Austria nel cuore stesso del sistema dei satelliti. In tutto il mondo comunista coloro che a<vevano risposto con più vi,gore al cHma del XX con• gresso erano stati gli intellettuali: in essi la dimensione -di Jibertà si era manifestata con forza più prorompente. Il circolo ,« Petiifi » era stato all'origine del prorompere, all'iinterno stesso del partito ungherese, di quell'ondata di rinnovamento che esplose nel partito prima che nel paese e ehe condusse alla insurrezione di ottobre. Conseguentemente sugli ~ntelletj. tuali comunisti e sulle loro organizzazioni si abbattè il peso -della restaurazione del '57 e del
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