Nuova Repubblica - anno IV - n. 52 - 23 dicembre 1956

6 COMUNISTI E SOCIALISTI PIÙ LIBERTÀ EMENO MISERIA GENOVA, 18 dicembre 1956 Caro Codignola,, la tua richiesta di aprire un dibattito tra socialisti e comunisti mi porta a rispondere alla tua lettera. Non intendo entrare in discussioni di carattere ideo– logico che potrebbero portarci molto lontano e su un ter– reno esclusivamente problematico, intendo esporre fatti e conseguenze di questi fatti. Quando nell'ormai lontano 1947, ventenne socialista, passai al PCI, i motivi del mio passaggio, come di tanti altri giovani di sinistra siciliani (tra cui l'on. Cipolla e il prof. Mineo), furono, anche se enonei, molto semplici. Il pl'Oblema del socialismo si poneva per noi come ·tm problema innanzi tutto di az;ione. Di azione Viva, reale per ti·asformare ]e strutture, per agitare e orgai1izzare i contadiqi, per distruggere le organizzazioni mafiose e la politica di corruzione che esse esprimevano. li dissidio tra noi e il Partito, anche dopo la scissione, era tutto lì. Il partito socialista protestava, il partito comunista era quello che appariva ai nostri occhi composto di « mili– tanti semplici, impersonali, disinteressati, risoluti a sor– montare gli ostacoli per compiere la loro opera». Né a noi ventenni preoccupava molto essere imperso– nali, -ché anzi ci sembrava questa una garanzia di volontà con1battiva. Tutto ciò che vi era di brutto nell'URSS (i quadYi, le architetture, molti films e romanzi dell'era staliniana) ci sembrava pienamente giustificato, quando vedevamo i compagni « di base» nelle feste dell'Unità e nei congi·essi considèrare belli i loro orrendi quadri e i loro ingenui a1·chi. Anche in Russia era avvenuto che una massa enorme di milioni di uomini si e1·a svegliata e si esprimeva in modo primitivo; il tempo avrebbe af– finato i gusti e distrutto molte cose. ·Molto più importante era per noi il fatto che miUoni di italiani erano· attorno al PCI; che esso raccoglieva do– vunque i militanti più combattivi; che risvegliava dalla misei·ia milioni di meridionali. Era del resto il Partito che aveva dato il 70% dei partigiani cadllti e il 90% dei carce1·ati per antifascismo. · Quando poi noi gi~vani, medio e piccolo-bol'ghesi, sco– privamo in qnei giorni la nostra fame, e qllella - mo– rale e materiale - di vasti strati della popolazione, la vita dei « catoi », il peso della mafia, appariva ben più i1nportante quello che si poteva fa1·e oggi di quello che si poteva discutere domani. Eravamo quindi tra quei « molti giovani e molte ragazze » che « con un disinte– resse e uno spirito di sacrificio degni dell'ammirazione più profonda» militavamo nel movirriento comunista. Eravamo stalinisti? Non credo, vi era un affetto per Stalin come mito, ma la critica era forte anche in uo– mini al vertice del Partito, come Girolamo Li Causi. Quando poi, come nel mio ca.so , molti di noi presero con rimpianto Ja via del Nord perché l'organi,-,zazione non era in grado di° farci rimanere al Sud, non ce ne p;,eoccupammo molto, né la situazione ci apparve di– versa. Un Partito più operaio, meno «imborghesito», con difetti e pregi non dissimili del comunismo meridionale. Che cosa è successo da allora? Perché non saremo più comunisti forse nel 1957, perdurando l'attuale vita interna del PCI? Forse perché Kruscev è stato scortese con la memoria di Stalin? Ma ·1a cosa J1on sarebbe jn sé molto preoccupante, l'importante è di andare avanti. Positiva è altresì, per chiunque ba spirito libertario, la svolta di Gomulka e degli avv~nimenti polacchi.· Resta il fatto che la classe operaia polacca e unghe– rese si sono levate in armi contro un regime che agiva in suo nome e che aveva determinato la 1·ivoln~ione in– dustriale nei due paesi. La scissione tra classe operaia e partito comunista, ne.i paesi .in cui il Partito ha il :po– tere, assume il significato non di crisi dello stalinis.m.o ma di superamento nella coscienza popolare del lenini– smo. Quando a noi dieci anni fa era sembrata positiva la prèsa di potere nelle democrazie popolari attraverso la forza, ciò e'ra avvenuto non perché stalinisti, ma Perché eravamo leninisti. Si pone quin~i il superamento sia dello stalinismo che del leninismo. Tuttavia quU"ndo l'on. Nenni dice che il socialismo aveva ragione nel 1921 noi non possiamo che esprirnere il nostro dissenso. L'anticlericalismo, la me– schina propaganda suj problemi nazionali, l'esiguità ideo– logica del socialismo italiano sOno stati, malgrado tutto, superati dalle 1otte e dalle esperienze del comunismo. Cancellare tutto questo per riprendere il discorso dal 192 l ci sembra maldestro. Purtuttavia l'esperienz·a di quest'ultimo anno e il Con– gresso del PCI insegnano che democrazia, socialismo e Partito Comunista, oggi e norr ieri, non coincidono più, anzi che il Partito .finché permane al potere Togliatti si presenta come una forza reaziçinaria. Rius.cirà l'opposizione interna a vincere la battaglia? Penso con scetticismo a tale possibilità, l'ichiamandomi a personali esperienze. La battaglia che io ho condotto per fare approvare in una assemblea di intellettuali co– munisti genovesi una mozione di condanna dell'intervento russo in Ungheria, dopo il sabotaggio palese del compa– gno prof. Carassi che presiedeva la riunione, è stata in~ :terrotta per l'intervento del compagno' prof. Pancini (membro della Comm. per lo Statuto del Congresso na– zionale del PCI) che ba vie'tato la :votazione g·ià iniz·iata: usando del suo prestigio di fisico posi ti vista. Lo stesso compagno Pancini si è astenuto nella vota– zione di una deplorazione dell'intervento dell'Esercito Russo in• Ungheria, approvata dal Comitato Direttivo del Circolo culturale di sinistra genovese. In questa occasione si è rivelata una tale doppiezza che neanc,he gli stessi avvocati meridionali di cui parla Salvemini avrebbero mai immaginata-. La mozione di.con– danna per l'intervento in Ungheria fu presentata dal prof. Carassi ed era aperta ed· esplicita. La seconda parte della mozione però affermava che tale intervento era con– s~guenza della politica dei blocchi. Questa tesi asociali– sta veniva respinta dal prof. Venturi e dalla maggioranza del consiglio, e determinava l'astensione dei comunisti (meno uno) dalla votazione della prima parte. Approfittando della prima conferenza tenuta nel Cir– colo (quella dell'on. Lelio Basso) l'« appa!·ato » faceva esprimere da una donna, presente in sala, una riprova– zione perché il Circolo aveva tenuto una posizione con- , traria ,all'intervento. Il Pancini - che presiedeva la se– duta - invece di interrompere la buona donna che par– lava di un problema interno · al Circolo estraneo alla conferenza, affermava che la votazione era legittima, ri– velava in pubblico il suo dissenso dal Direttivo non spie– gando però per quali arcani_ motivi l'obbligo di ubbidire alla volontà della maggioranza non valesse per lui.- Sono purtroppo questi uomini che dirigono la Com– mi~sione culturale del PCI. Quali che siano i rheriti pas– sati di questi uomini (e vi sono stati), resta il fatto che sono uomini superati, e che non vogliono andare via. Dovremmo quindi, per non s~omodare costoro, aste– nerci dal prendere posizione contro la Direzione del PCI? Oppure il problema è per il socialismo di prendere po– sizione netta e aperta per' salval'e l'organizzazione operaia? Si è detto che la base comunista è stata favorevole all'intervento in Ungheria: se ciò è «giuridicamente» esatto, è anche vero che solo il 10% degli iscritti ha par– tecipato al Congresso genovese. Bisog,~a poi considerare che ogni congresso sezionale (e quasi sempre ogr.i.i con– g1·esso di cellula) era presieduto da un funzionario. Inol- Uf\Ji\ Rl\!OLUZIOf\JE FJ.G LI 1\ · ·DILEf\Jlf\J S E C'E' una cosa che dà fastidio nelle prese di posi– zione dej dirigenti del PCI, è l'ipocrisia e il vellei– tarismo della loro volontà l'ivoluzionaria; tanto più pericoloso in quanto oggi effettive possibilità rivoluzio– narie in Italia non si dànno; esiziale pe1· la coscienza, la resistenza, la forza d'urto della classe operaia. Un simile velleitario rivoluzidnarismo non giustifica, caro prof. Mac– chioroJ 1;antidernocrazia interna del partito comunista, che non sta compiendo - oggi ma rivoluzione armata. Del resto è un velleitarismo chiaramente posticcio, ove si pensi alla interpretazione ·d{lta dal PCI a.i fatti di Ungheria. C'è un punto di questa interpreta:done, che le altre voci della sinistra non hanno messo abbastanza in chiaro, un punto che io considero essem:iale: verché la rivolu– zione russa si è tJco'ntrata con la rivoluzione ungherese (se si sono scontrate)? Così come è scritta 1a proposizione è certamente er– rata: si può dire, in termini formali, che qui non si tratta dello scontro di due rivoluzioni, ma dello scontro tra una rivoluzione e una conservazione. In termini sostanziali, tuttavia., l'affermazione rimane ve1·a.: ci si trova di fronte a due rivo]uzioni essenzialmente diverse l'una dall'altra, con caratteri ed (eventualmente) scopi che rendono di estremo interesse determinare quale delle due sia la più produttiva. di effetti al rnomento attuale. Sembra, anzitutto, che la rivoluzi0ne ungherese sia qualcosa di radicalmente nuovo. Si potrebbe dire che essa è una rivolta determinata dalla cattiva applicazione di un sistema, soltanto se non fosse esistito Bela Kun, e se la frase in se stessa non fosse poi sciocca: il sistema è dato dall'applicazione, ~ non c'è dubbio che sulla· cru·ta qualunque sistema si presenta con caratte1·i utopistica– mente felici. Era inevitabile che le manifestazioni più esteriori potessero far pensare a qualcosa di noto (Kos– suth, la bandiera, J'Honved, il. circolo Petoefi, ecc.) : ma al di sotto di queste manifestazioni c'è ben altro che un semplice rigurgito nazionalistico; non sono le semplici tradizioni nazionali che fanno la « via nazionale al socia– lismo l>, come amano dire i nostri socialisti e i nostri co– munisti. Come giustamente rilevava Codignola, dieci anni di regime democratico-popola.re hanno c~rtameJlte sco_n– volto i rapporti di classe e non solo l'università e i cu– coli intellettuali, ma l'esercito e tutta la classe dirigente ungherese erano ormai di origine proletaria, e comun– que educata a fondo sui principi marxisti leninisti. · Ma .è una rivoluzione nuova non soltanto perché nata diversamente e dopo quar~.nt'anni di storia e di espe– rienza; è nuova per il suo elemento distintivo, quei « Con– sigli degli operai, dei soldati, dei contadinì e degli intet-· letfuali » che l'hanno dominata fin dalla sua nascita. (14~) nuova repubblica tre, numerosi_funzionati sono stati imposti come delegati. Che fanno i socialisti? Possiamo dire che essi seguono nei riguardi dej comunisti una politica completamente sbagliata. La preoccupazione unitaria sovrasta il « v'e1·– tice ». A Genòva i1 giornale Il Lavoro diretto dall'ex azio– nista Fancello h3. completamente ignorato i1 Congresso provinciale comunista, per non preridere posizione sui problemi dei comunisti, come non fossero anche i pro– blemi dei socialisti. Sempre Il Lavoro conserva in frigo– rifero un mio articolo approvato e conetto dal Fancello stesso sul Socialismo e sui problemi della libertà. L'ar– ticolo non viene pubblicato perché, proclamando la ne– cessità della democrazia interna nei partiti operai, può « disturbare i comunisti». L'assenza di una pressiona socialista sulla base comunista, l'assenza. di una discus– sione socialista dei ·problemi del comunismo europeo de– termina in realtà il conflitto, l'incomprensione tra· i mi– litanti di base dei due Partiti. Come poi verrebbero accolti i comunisti che volessero trasferirsi nel PSI? .Prima di tutto non esiste fino ad oggi (e per l'on. Basso secondo quanto aHermato nella confe– renza genovese, non esisterà nemmeno domani) una ef– fettiva democrazia interna di partito. In secondo luogo tutti coloro che per lunghi anni hanno imitato i comu– nisti, oggi tengono a differenziarsi ed a respingerci come estranei. Dimentica.no, i. Congressi con le votazioni per alzata di mano, l'ostilità verso Tito, l'asse}lza di ogni presa di posizione per i « comunisti liberali» quando questi venivano uccisi, incarcerati, espulsi. Dimenticano la vita dell'Avanti! in questi nltirni anni e tante altro cose· che potremmo facilmente ricordare. Oggi, essi hanno r!!-gione; noi, che eravamo nel PCI accanto a11a maggio– ranza degli operai e dei contadini italiani, torto. Si è compreso il senso profondo di crisi che travaglia il militante di base? Dove· il socialismo è stato realiz– zato? In nessun luogo finora. E' possibile il socialismo senza libertà di parola, contro la classe operaia? Non vogliamo certo svalutare la industrializzazione dei paesi arretrati, ma non si possono confondere le premesse col socialismo. Si può dire che il problema italiano è oggi quello di realizzare la democrazia, di darle il contenuto sociale pili avanzato possibile. Cioè, più libertà e m,erw mi-seria. C0me italiani le esperien·ze che ci interessano di più restano quelle polacche, jugoslave, svedesi, inglesi. Ma un tale discorso sarebbe un altro discorso, forse molto necessario per Unità popolare che, per un mirag– gio, potrebbe perdere il possibile. Cordialmente, sempre tuo CARLO SCARDULLA Quello ·che forse non hanno capito né Nagy, né i russi né Kadar è che si tratta di rivoluzione figlia spon– tane~ della riv~luzione •russa: anzi, figlia di Lenin. Con un carattere di stupefacente somiglianza (il Soviet), che tuttavia la rende totalmente nuova rispetto alla stessa rivoluzione madre, in quanto esso si rivela non pili ele– mento particolare ed implicito della rivoluzione russa, ma elemento comune -alle rivoluzioni sociali. Questo Nagy non ha capito e, non avendo probabilmente altre possi– bilità, ha tentato di sforzare il· s.ignificato de!Ja rivolu– zione in senso conservatore: la l'Ìnascita del pluralismo di partito in una dem0cra,-,ia popolare {dopo Bel8. Kun) non può I1on essere il segno di una involuzione. Che Nagy sia stato costretto a ciò proprio dai Consigli operai, non significa nulla: anche i Soviet del '17 non chiedevano il potere, e quella ungherese ha i car~tteri precisi di una pre-rivoluzione; del resto l'unica garanzia politica che si poteva richiedere in quel momento per ottenere il con– tro1lo dello Stato, era la ricostituzione cli una democra– zia parlamentare. Ciò non' toglie la preponderante impor– tanza dei Cor-isigli operai, non solo per la loro stessa esi– stenza, ma per la loro continuità sotto il governo di Ka– dar che, di fronte ai criteri di ordine borghesi, è certa– mente nn governo illegittimo. Infatti, non è solo l'odioso 1·itorno dei russi, che ha staccato gli operai dal governo; è la stessa forma di go~erno che non ha pili 1·ispondenza nelle masse ungheresi. Non tanto perché governo ·usur– patore o imperialista o assassino, ma proprio in quanto governo, in quanto detentore del potere, nello stesso modo come lo era Nagy, lo era Rakosi, lo sono le democrazie occide.ntali. Governo, perciò, non rivoluzionario, come pre– tenderebbero i nostri comunisti, ma reazionario, borbo– nico. Tutto il dramma sta nella impossibilità dei russi di riconoscere questo valore autonomo alla l'ivoluziono ungherese, e nella impossibilità degli ungheresi di ve– dere la loro rivoluzione come un perfeziona.mento di quella russa. Tragedia quasi esclnsiva.mente determinata dalla mancanza di un gruppo di uomini che avesse la prospettiva di questa rivoluzion~ o, almeno, che avesse la coscienza degli strumenti nuovi e delle nuove vie da per– correre quarido uil moto rivoluzionario è terminato. Perché forse questo è il significato e la necessità della rivoluzione ungherese; ed è senz'altro un problema capi– .tale di qualsiasi società, che il moto rivoluzionario non ripieghi su se stesso, ma continui « progressisticamente ». Quando si conchiude una rivoluzione come quella russa e si instaurano un mondo e una mentalità completamente nuovi e incomprensibili per chi appartiene al vecchio mondo e alla vecchia mentalità, si ripropongono imme– diatamente i contrasti tra conservazione e progresso. E su questi contrasti, una volta che cede una maglia del regime terroristico imposto dalla svolta precedente, può ben scatenarsi una nuova rivoluzione non voluta, non prevista, non pensata. Il prof. Macchioro non cerchi dunque di ridurre ogni cosa ai fascisti o alla debolezza di Nagy; perché oltre a non rendere migliori le prospettive del movimento co– munista (ma se mai a renderle più incerte, se è possi– bjle), finisce per rendere il marxismo una cosa poco seria. PAOLO LEON,

RkJQdWJsaXNoZXIy