Nuova Repubblica - anno III - n.23-24 - 14 agosto 1955

.nuova repubblica. 'LUCI DELLA RIBALTA Da sinistra a destra: .Jean Vilar (Don .Juan), l\fonique Chaumette (Elvire), Daniel Sorano (SganareNe), nel secondo tempo del « Don .Juan » di Molière IL F EST I V .AL DEL TEATRO A VENEZIA ANTICO E lIODERNO di LUDOJllCO Z'ORZI I L XIV FESTIVAL INTERNAZIONALE del Teatro, promosso e organizzato come i precedenti dalla Bien– nale, si è svolto a Venezia tra il 14 luglio e il 2 ago– sto. Anche quest'anno la maggior parte delle rappresenta– zioni ha avuto luogo al teatro all'aperto dell'isola di San Giorgio Maggiore, « gentilmente concesso» aHa Biennale (per un accordo che va trasformandosi in consuetudine) dalla Fondazione Cini : quel Teatro Verde che spesso ab– biamo visto esaltare dalla critica più degli spettacoli che vi sono ospitati, e che a nostro avviso (nulla togliendo alla sua perfetta attrezzatura tecnica) è destinato a rimanere uno dei più insigni esempi dello stile che chiameremo post– littorio, vale a dire il prodotto di un gusto retorico-cele- 1::rativo misto tra la vacua scenografia (uso Vittoriale de– gli Italiani) e la cimiteriale seriosità di un parco della 1·imembranza (alberelli, arbusti, funebri siepi di bosso e di . mortella) : il tutto corretto e amplificato da fisime di im– ponenza e funzionalità di tipo « milanese », estranee al– l'intima e familiare eleganza delle cose veneziane. Comun– que, Teatro Verde a parte, il carattere eccezionale degli spettacoli risulta ancora più evidente se riguardato nel– l'ambito di questa annuale rassegna, che, dal pretesto oc– casionale e turistico delle prime edizioni (concepite come una scelta di spettacoli di richiamo, adatti alla varietà di gusti del pubblico cosmopolita che si riversa nella città durante i mesi estivi), ha finito per evolversi nel corso di questi ultimi anni, in armonia con le grandi esposizioni figurative e con la mostra cinematografica, verso una più impegnativa funzione culturale: quella di presentarsi agli studiosi e agli amatori d'arte scenica come un'unica (an– che se purtroppo assai circoscritta) occasione per cono– scere gli aspetti più interessanti e significativi di una annata di produzione teatrale italiana e straniera, in un quadro che dovrebbe completarsi nella successione degli anni e delle rassegne. Il merito di questo sviluppo, ini– ziatosi sotto la direzione di Guido Salvini, va· in buona parte 1-iconosciuto all'appassionato organizzatore e anima– tore del festival, Adolfo Zajotti, il quale, come l'anno scorso ebbe la soddisfazione di presentare per la prima volta in Europa la Compagnia del Teatro Classico giap– ponese di Tokyo (che mai si era fino allora allontanata , dall'Estremo Oriente), cosi quest'anno ha potuto offrire in apertura (e in prima assoluta per il pubblico di Ve– nezia) le recite di Ecuba di Euripide e di Edipo Re di. Sofocle, nell'interpretazione della Compagnia del Teatro Nazionale greco di Atene. · Dopo lo spreco di rappresentazioni di tragedie greche , fatto in Italia da una decina d'anni a questa parte (e non solamente in sacri luoghi e deputati > come gli antichi tea- - tri di Siracusa, Taormina, Pompei, Ostia, e il palladiano · Olimpico di Vicenza) ; dopo che la tragedia greca è· di- ventata, da noi, un -pretesto fisso per lo s-f'lgo delle pm arbitrarie, spesso ridicole e sempre costosissime lantasie re– gistiche, e tema d'obbligo per gli esercizi di traduzione di un manipolo di letterati di grido, capaci di riversarvi, a seconda dei casi, l'empito di tardi furori carducciani o la rarefatta estasi sillabica della poetica della « parola osses– siva»; dopo che sulla scena di Eschilo avevamo visto idoli polinesiani e feticci caraibici, e fogge di abbigliamenti lungo una' gamma estensibile dai sommari « due pezzi > dei pa– lafitticoli del Mesozoico alle opulenze bizantineggianti delle cortigiane di Babilonia, e udito nenie e clamori assecon– dati dai più stravaganti commenti ritmici a base di tam-tam e marakas; dopo tutto questo, era logico che una autentica tragedia greca, recitata e «mimata> in greco, chi attori greci, rappresentasse finalmente quel punto fermo, -quella pietra di paragone, di cui si S'entiva il bisogno per stabilire i rispettivi valo,-i scenici. Diciamo subito che, a differenza di quanti hanno incondizionatamente esaltato la prestazione del complesso ateniese come un modello di realizzazione scenica, ci siamo tenuti lontani, con sospetto, da questo genere di infatuazione. Non va dimenticato in– fatti che la lingua originale (nel nostro caso un idioma carico di suggestione sonora come il greco moderno delle versioni di Ap. Melacrinos per Ecuba e di Photos Politis per Edipo Re), anche per chi, come il sottoscritto, abbia voluto sobbarcarsi della fatica di rispolverare il suo poco greco di liceo per andare a rileggersi larghi tratti degli ori– ginali (sia pur puntellandosi ·a una traduzione a fronte), produce automaticamente nello spettatore un Verfrem– dungseffekt, per dirla con Brecht, un « effetto di strania– mento > rispetto alla capacità di lasciarsi interamente pren. dere dallo spettacolo, col pericolo di svisare, sopravvalu– tandolo, il reale valore dell'insieme. A noi, per es., la tanto celebrata interpretazione dei personaggi -di Ecuba e . di Giocasta da parte della grande tragica Katina Paxinou, pure riconoscendovi tutti gli elementi di un singolare po– tere di suggestione, è apparsa spesso inficiata da una no– tevole dose di esteriorità verbale e viscerale, che risente di uno stile di recitazione abbastanza vecchiotto e, in parte, superato. Si pensi, tanto per seguitare l'esempio brechtiano, ai risultati di pura essenzialità conseguiti dal grande dram– maturgo e regista tedesco nelle sue messinscene classiche con la Compagnia del Berliner Ensemble (Brecht-Neher,. Antigonemodell 1948. Berlin, Weiss-Verlag, 1949). La stes– sa impressione guardinga, desiderosa di una conferma in . seconda istanza, abbiamo riportato dall'impiego del coro; giacché è difficile dire fino a che punto la soluzione, che di questo problema centrale della tragedia ellenica ha pro• posto la regìa di Alexis Minotis, sia pure inserendolo come punto dì forzà della ·sua concezione scenica, corrisponda in effetto (con le sue evoluzioni e le sue cadenze .fini a se -stesse, compiaciute ad evidentiam della loro- singola spet– tacolarità) alla funzionalità inalienabile che il coro do– veva avere nella messinscena antica, ali'« interno> dello spettacolo, secondo canoni la cui misura sfugge alla sen– sibilità più coscienziosa degli interpreti moderni. Impossibile diffondersi qui sulle· due tragedie rappre– sentate. Ci limiteremo pertanto alla sola osservazione che, dall'inevitabile confronto t1·a i due tragedi, il più pros– simo e contemporaneo si rivela Euripide, quali che siano i giudizi formulati sn di lui, da taluni reputato . il minore della grande triade dei tragici dell'antica Grecia, da altri ìl più complesso, da molti addirittura come il ri– formatore acuto e spregiudicato di un genere che, mercé sua, si è arricchito della ragione psicologica, <li quel senso del relativo che ha scosso• le coscienze riguardo all'onnipo– tenza degli dei sugli impe.rscrutabili disegni del fato. Euri– pide è il primo pensatore ed artista che, opponendosi al conformismo, abbia osato fare il processo ai vincitori. Ap– partenente alla generazione successiva a quella che ebbe il vanto di aver piegato i Persiani (vuole la tradizione che egli sia nato a Salamina proprio nel giorno in cui Eschilo si batteva nelle file dei vincitori contro gli invasori), visse proprio nell'epoca in cui le for– tune elleniche cominciavano a declinare dopo la di– -sfatta di Siracusa. Euripide comincia ad intuire che i fati altro non sono che la conseguenza, spesso lontana, de!Te azioni compiute sia dalle collettività che dai singoli. Le vendette di Ecuba, o di Medea, sono sì terribili, disu– mane; ma non si può giudicarlo senza tenere conto delle disperazioni che le hanno determinate. Da circa due mil– lenni non c'à spettatore che uscendo da teatro dopo avere ascoltato Ecuba, non dia in cuor suo ragione alla < for– sennata che latrò come cagna :i., ad onta dell'orrore della vendetta compiuta attra,·ei·so la finzione, la frodo, la •cru– deltà più spietata. Ecuba espierà in eterno abominio la sua sterile colpa; né poteva, la vinta regina troiana annie• tata dalla morte di tntti i suoi figli, essere presaga, come spesso si sente invocare dai commenti del pubblico, del messaggio cristiano della cassegnazione e ciel perdono. · T ERZO SPETTACOLO DEL FESTIVAL, andato in scena il 20 e il 21 luglio al Teatro La Fenice, è -stato La scala di Rosso di San Secondo,, nell'inter– pretazione della Compagnia Italiàna di Prosa, ·(jon · Lilla Brignone e Gianni Santuccio e per la regia di Luigi Squarzina. Si è trattato (esattamente come tre anni fa con La vedova di Renato Simoni) di uno di quei cattivi serv1z.1 tra il con1n1emorativo e l'assistenziale (se l'a>1tore sia anco~·a in vita) dai quali paro che an– che la più sprovincializzata rassegna internazionale non possa andare esente. Rosso apparti9ne a un periodo preciso del teatro italiano, a quel tentativo di rinnovamento suc– cessivo alla crisi del pl'imo dop9guerra, concretatosi in stile nell'opera di. Pirandello, mentre in altri, come nel caso di Rosso, non riesce a liberarsi dai segni del tempo, dalla cronaca, dal bozzetto di maniera, e insieç1'l dà un atteggiamento astratto e irreale, come il gusto alla Piti– grilli è il liberty connmzionale del 1!)20. Sqnai:-~ina ha af– ferrato questo carattere contingente di Rosso, come appare nella nota premessa al programma della :fenice,. ma _nor\ ha saputo risolverne nello spettacolo gli scadimenti .e. le contraddizioni. Mediocre il risultato, nonostante il volente– roso impegno di alcuni interpreti. Tutt'altro discorso sarebbe invece da fare per le gol– doniane Ba,·uffe chiozzotte, sulle quali tuttavia non sta– rémo a dilungarci, trattandosi della ripresa di uno spet– tacolo di cui si è già a lungo parlato lo scorso anno. Poi– ché, a dispetto degli acquazzoni che hanno scçmvolto per alcuno sm·e la successione delle repliche, si è visto cl:\e an– che quest'anno è stato l'unico spettacolo del ciclo di auten– tica cassetta, n1i pare sia da riprendere in attE\nto esame la proposta avanzata da molti già l'anno scorso, di fare delle Baruffe lo spettacolo· fisso del festival' di Venezia, come fa di Jedermann di Hofmannsthal il Festival di Sali– sburgo. Ove una più. energica innervatura registica riu– scisse ad eliminare senza pietà le sfasatura di taluni in– terpreti, giungendo nei casi più incurabili alla. sostituzione deil'attore (vedi p. es. l'insopportabile continuo soggettare di Baseggio, che opporrà sempre l'imprimatur elargito dalla buon'anirna di Simoni alla sua inteq,retazione di .Paron Fortunato nell'edizione <lolle Baruffe a cura dello stesso Simoni nel lontano 1934), la ripetizione annuale di questo spettacolo potrebbe essere un decoroso riconoscimento sta– bile, nel corso della maggiore manifestazione teatrnle del– l'anno, offerto al grande veneziano dalla sua città, che pure, per un banale conflitto di speculazione edilizia, è stata finor/1 incapace di riaprirgli lo stupendo teatrino di San Luca; a lui dedicato. Ma le rappresentazioni di gran lunga più importanti sono state quelle date il. 31 luglio e l'l e il 2 agosto dalla Compagnia del Théiìtre National Populaire di Parigi di– retta da Jean Vilar: il Don Juan di Molière e La ville, opera postuma del recentemente defunto Paul Claudel. Il complesso di Vilar non ·è nuovo per Venezia, dove si è già presentato due volte durante le passate edizioni del fe. stivai. Mentre ci ripromettiamo di tornare, con una nota a parte nel prossimo numero, sull'.esemplare lezione di stile teatrale impartita da questa eccellente équipe, che, con la compagnia di Jean-Louis Barrault, rnppresenta il meglio dell'odie1·no teatro francese, accenneremo ora brevemente ai due lavori presentati. E' noto che Molière compose il Don Juan in tutta fretta, per turare il « buco » aperto nel suo repertorio dalla proibizione regale del mordentissiino Tartuffe, sospeso dopo un'unica rappresentazione. Nel Don Juan (andato in scena al « Palaia Royal» di Parigi il 5 febbraio 1665) questa

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